Quando il rumore delle guerre, il grido della natura ferita e l'indifferenza sembrano aver reso l'umanità stordita e senza bussola, l'opera di Sebastião Salgado ci parla di sentimenti e umanesimo negato come un manifesto dell'essenza umana. Non si tratta solo di immagini straordinarie o di testimonianze visive: Salgado ci offre una filosofia...
"Pensieri" leggendo post
Pensiero del 19 Maggio 2025 ore 16.50 - tempo di lettura due minuti
Caro Arnaldo, se posso permettermi. Non bisogna leggere carta da culo. Bisogna agire, e basta. Perché quando si comincia a rispondere alla propaganda, quando ci si sente in dovere di giustificare umanità e coerenza, vuol dire che la propaganda ha già fatto il suo effetto: ti ha messo sulla difensiva. E no, non possiamo permettercelo. Chi parte per portare aiuto non ha bisogno di comunicati, né di condanne rituali che rassicurano chi scrive da una scrivania. Chi è sul campo – sotto le bombe, tra le macerie, accanto ai bambini che non hanno più acqua – non deve dimostrare nulla. Perché i gesti parlano più forte delle parole, e la pace si costruisce così: un sacchetto alla volta, un sorriso alla volta, anche da chi dovrebbe avere solo odio e invece ti accoglie con dignità. La verità è che chi giudica da lontano ha smarrito il senso della realtà. Si scalda per le dichiarazioni, ma non per i volti di chi sopravvive ogni giorno all'orrore. Preferisce il rumore dei titoli al silenzio pesante delle sirene. E invece di perdere tempo con chi semina sospetto, dovremmo fare una cosa sola: portare il loro grido a chi di dovere. Alle istituzioni, ai governi, ai popoli che possono davvero cambiare le cose. Perché è lì che si può riscrivere la storia. Non negli editoriali indignati a senso unico, ma nelle azioni che mettono al centro le persone, non le ideologie. Noi non facciamo finta di voler la pace: la inseguiamo davvero. E se questo ci rende "colpevoli", allora sì: siamo colpevoli di umanità. Il resto è solo rumore. Rumore che serve a coprire il suono delle bombe. E di quelle, purtroppo, non vi leggo mai indignati abbastanza. Ricordo inoltre, che mentre noi discutiamo di cazzate, loro continuano a morire. A presto
Abel Gropius
Pensiero del 11 Maggio 2025 ore 09.50 - tempo di lettura tre minuti
"Sono una professoressa, una docente che non ha avuto paura di guardare, che ha chiuso il registro per intervenire.
Una scena che potrebbe appartenere a qualsiasi scuola… o a quella che ancora esiste nei sogni dei ragazzi che cercano giustizia.
Era lunedì. Seconda ora. Matematica.
Stavo spiegando logaritmi, ma qualcosa non tornava. Lo sentivo nell'aria, in quella tensione sottile che si insinua tra i banchi come un serpente.
Giulia — la ragazza del fondo — aveva lo sguardo basso, spento. Sembrava scomparsa dentro il suo maglione. Ogni tanto trasaliva a qualche risata strozzata, a qualche colpo di tosse che non era proprio un colpo di tosse.
Allora ho fatto quello che ogni tanto bisognerebbe avere il coraggio di fare:
ho chiuso il libro.
"Ragazzi, oggi si cambia. I logaritmi possono aspettare". Tutti si sono voltati. Non capivano. Alcuni sorridevano, pensando fosse una pausa fortunata.
Ma io non sorridevo.
Sono andata dritta verso la terza fila. Due ragazzi si passavano un foglio.
Il solito foglietto "innocente".
L'ho preso.
L'ho letto.
C'era disegnata Giulia.
Con una caricatura oscena.
Con insulti, scherni, battute volgari. Una cosa vigliacca.
Codarda.
Una cosa che non si fa.
Ho alzato il foglio e l'ho mostrato a tutti.
"Guardatelo bene. E ora ditemi: ridereste ancora se ci fosse vostra sorella qui sopra? Se questa fosse vostra madre, vostra figlia?"
Silenzio.
Il silenzio che fa rumore.
Mi sono girata verso i due colpevoli. Li ho guardati dritti negli occhi.
E ho detto:
"Pensavate che nessun adulto se ne sarebbe accorto.
Ma io vi ho visto.
Eccomi.
Mi avete trovata". Poi mi sono voltata verso Giulia.
E le ho detto piano, ma con forza:
"Tu non sei sola. Non lo sarai finché ci sarò io". In quel momento ho capito perché insegno.
Non per i voti.
Non per i programmi.
O almeno, non solamente per tutto questo.
Insegno per esserci quando qualcuno ha bisogno che un adulto si alzi in piedi e dica: basta.
Da quel giorno, Giulia ha ricominciato ad alzare la testa.
Ha ricominciato a crederci.
E io, ogni tanto, continuo a chiudere il libro.
Perché la scuola è anche questo.
L'educazione si insegna "anche" a scuola, non solo in famiglia.
Cara Professoressa,
le sue parole sono una lezione di coraggio e umanità che va ben oltre i logaritmi e i programmi scolastici. Ha dimostrato che insegnare non è solo trasmettere conoscenze, ma soprattutto formare persone, dare voce a chi non riesce a trovarla, illuminare il buio dove spesso si annidano il dolore e l'ingiustizia.
Il suo gesto di chiudere il registro e affrontare quella situazione è un atto di responsabilità e amore verso i suoi studenti. Ha dimostrato loro che la scuola è un luogo di crescita, ma anche un rifugio sicuro dove nessuno deve sentirsi abbandonato o invisibile.
Le sue parole hanno scosso non solo chi era colpevole, ma anche chi, forse senza cattiveria, osservava in silenzio. Quel silenzio che, spesso, è complice. E ha dato a Giulia un dono prezioso: la consapevolezza che qualcuno crede in lei e la difende.
Lei ci ricorda che l'educazione non è fatta solo di pagine di libri, ma di esempi concreti, di valori vissuti e condivisi. Il suo gesto è stato una lezione che i suoi studenti porteranno con sé per tutta la vita, perché ha insegnato loro che il rispetto e la dignità non sono negoziabili.
Grazie per aver avuto il coraggio di guardare, di intervenire e di dire basta. Il mondo ha bisogno di più insegnanti come lei, che non abbiano paura di mettere da parte un programma per fare spazio all'umanità.
Con stima e ammirazione,
Abel Gropius
Pensiero del 13 Maggio 2025 ore 00.07 - tempo di lettura tre minuti
La speranza è più forte della fatica: cosa ci insegnano i ratti di Curt Richter
Nel 1950, un esperimento apparentemente crudele ha rivelato una verità sconvolgente sulla natura umana. Il protagonista? Un gruppo di ratti. Il messaggio? Un grido silenzioso di ciò che ci mantiene vivi: la speranza.
Curt Richter, professore di psicobiologia, voleva capire quanto a lungo un ratto potesse resistere prima di arrendersi all'inevitabile. Mise una dozzina di ratti in contenitori d'acqua. Nessuna via di fuga. Nessun appiglio. Solo acqua e resistenza.
Risultato? Dopo circa 15 minuti, i ratti si arrendevano. Affondavano.
Ma Richter fece qualcosa di diverso. Poco prima che si lasciassero andare del tutto, li salvò. Li tirò fuori, li asciugò, diede loro qualche minuto per riprendersi… e poi li rimise nell'acqua.
E a quel punto successe qualcosa che sfida la logica: quei ratti nuotarono per ore. Non minuti. Non mezz'ora. Sessanta ore.
Alcuni addirittura oltre 80.
La differenza? Un semplice salvataggio. Una breve tregua. Un piccolo intervento che ha cambiato tutto.
Perché? Perché quei ratti avevano imparato qualcosa. Non a nuotare meglio. Non a resistere fisicamente di più.
Avevano imparato a credere.
A credere che forse, da qualche parte, ci sarebbe stato ancora un salvataggio.
E quel pensiero – quella speranza – li ha tenuti a galla.
Il potere invisibile che ci tiene vivi
Nessuno di noi è un ratto in un barattolo. Ma in certi giorni, ammettiamolo, ci sentiamo esattamente così.
Sommersi, stanchi, in trappola. Senza appigli, senza uscita. E la tentazione di smettere di "nuotare" – di provarci – è reale.
Ecco perché questa storia parla di noi.
Ci dice che la mente arrendevole cede prima del corpo stanco.
Che la disperazione ci spezza molto prima delle circostanze.
E soprattutto: che basta un barlume di speranza per riscrivere tutto.
A volte, una piccola luce salva una vita intera
Magari è una parola di incoraggiamento.
Una persona che ci dice: "Sono qui."
Una pausa. Un abbraccio. Un gesto gentile in mezzo al caos.
Non sottovalutare mai il potere di essere "quella mano" che salva qualcuno dal fondo del barattolo.
E, ancora più importante, non smettere mai di credere che ci sia una mano anche per te.
Continua a nuotare
Se ti senti stanco, esausto, vicino ad arrenderti, ricordati questo:
Non sei solo.
Non è finita.
E anche se tutto dice il contrario, potresti essere a pochi secondi dal tuo salvataggio.
A volte, la forza non è questione di muscoli. È questione di significato.
E chi ha una ragione per resistere… può nuotare anche per 60 ore e più.
Continua a nuotare. La speranza è reale. E salva.
T*M
Pensiero del 10 Maggio 2025 ore 11.02 - tempo di lettura due minuti
È un riflesso della natura umana: giudicare prima di capire, reagire al visibile prima di cercare il senso profondo. Nel caso di figure come un Papa, simbolo e uomo insieme, questa dinamica diventa quasi inevitabile. La sua estetica – il volto, il sorriso, il modo di muoversi – diventa immediatamente un supporto su cui proiettare aspettative, speranze o critiche.
La faccia di un leader religioso non è mai neutra: ogni piega del viso, ogni sfumatura del sorriso o ombra di un ghigno, viene letta come una dichiarazione, un manifesto. Ma è una lettura spesso superficiale, priva di contesto. Ci aggrappiamo alla facciata perché è più facile che affrontare la complessità del "chi" quella persona sia davvero, delle scelte che farà, del mondo interiore che rappresenta.
C'è anche un bisogno collettivo di semplificazione. Ridurre una figura complessa come un Papa a un sorriso o a una postura è un modo per renderlo "gestibile". Il sorriso accogliente diventa simbolo di apertura; il ghigno, se tale sembra, di ambiguità o severità. Eppure, entrambe queste letture sono incomplete, frammenti di un'immagine più grande che richiede tempo per essere compresa.
Forse, dovremmo ricordare che ciò che conta non è solo il volto, ma ciò che quel volto porta con sé: parole, scelte, visioni. Un sorriso può essere sincero o strategico, un ghigno può nascondere compassione o disillusione. L'essenza non è mai nella superficie, ma in ciò che la superficie nasconde o rivela nel tempo. Guardare oltre il visibile richiede pazienza e umiltà, due virtù che spesso dimentichiamo di coltivare, soprattutto di fronte ai simboli.
La bocca larga, nel linguaggio universale delle espressioni umane, sembra incarnare un'apertura verso il mondo, un invito implicito alla connessione. Una faccia che sorride con naturalezza comunica empatia, rassicura, rende più semplice abbassare le difese. È come se, in un istante, quell'apertura disegnasse una strada per il dialogo e la fiducia. Non sorprende, dunque, che la selezione naturale possa aver favorito tratti che suggeriscono accoglienza e calore: in una specie sociale come la nostra, la sopravvivenza passa anche attraverso il legame e la cooperazione.
Ma cosa succede quando la simpatia diventa un'arma, quando ciò che sembra autentico è invece costruito? Qui entrano in gioco i "truccati", coloro che indossano un volto prestato, una maschera sorridente per attirare lo sguardo o il cuore altrui. Filosoficamente, è un gioco complesso: simulare la bontà per affermarsi. Sociologicamente, forse è una strategia di sopravvivenza moderna. Fingere di avere un'espressione aperta, un sorriso largo, potrebbe essere il modo di aggirare l'indifferenza in un mondo sovraccarico di volti e informazioni.
Eppure, il paradosso emerge: un sorriso forzato tradisce presto la sua natura. La bocca larga può attrarre, ma senza l'autenticità che la anima, non trattiene. Forse, allora, la vera chiave non è tanto avere un sorriso perfetto, quanto un sorriso che risuoni con ciò che siamo davvero. Perché, alla fine, ciò che ci fa fidare non è solo ciò che vediamo, ma ciò che sentiamo dietro quel volto: una promessa, non di perfezione, ma di verità.
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