La porta di Magda Szabó: il romanzo perfetto che ci insegna a morire (e a vivere)

05.12.2025

Ci sono libri che non hanno bisogno di essere difesi: esistono, respirano, ci attraversano. Non sono semplicemente "grandi romanzi", ma esperienze che ci cambiano. Ci sono opere che non si limitano a raccontare una storia, ma che si impongono come veri e propri dispositivi di pensiero, capaci di trasformare la percezione che abbiamo della vita e di noi stessi; La porta di Magda Szabó appartiene a questa categoria rara e preziosa, perché non si offre al lettore come semplice narrazione, bensì come esperienza che costringe a interrogarsi sulla natura dei legami, sulla responsabilità che ci lega all'altro, e sul mistero insondabile che accompagna ogni esistenza umana. Alcuni capolavori vivono di imperfezioni – pensiamo a Il castello di Kafka, sospeso in un finale che non arriverà mai – eppure proprio in quell'incompiutezza trovano la loro forza. Ma La porta di Magda Szabó è diverso: è un romanzo perfetto. Perfetto non perché levigato, ma perché inevitabile. Pubblicato nel 1987, esplora la complessa relazione tra l'autrice e la sua serva. La storia si concentra su una donna ruvida e riservata, con segreti nascosti dietro una porta eternamente chiusa. Questo libro è considerato uno dei lavori più significativi della scrittrice ungherese contemporanea e ha avuto un impatto profondo sui lettori, grazie alla sua narrazione delicata e disarmante.



La vicenda, apparentemente semplice, mette in scena l'incontro tra una scrittrice giovane e affermata e la sua domestica anziana, Emerenc, figura enigmatica e irriducibile, che custodisce dietro la porta della propria casa un mondo privato, impenetrabile, simbolo di un confine invalicabile tra ciò che si mostra e ciò che si nasconde. Ma ridurre il romanzo a questa trama significherebbe tradirne la portata: ciò che Szabó costruisce è un laboratorio di verità, un prisma attraverso cui osservare la fragilità e la forza delle relazioni, la tensione tra il bisogno di comprendere e l'impossibilità di possedere davvero l'altro


Emerenc: la vita che non si può addomesticare

Emerenc non è un personaggio: è una presenza. Troppo reale, troppo spaventosamente vera per essere confinata nella finzione. La sua "Città Proibita", il cane Viola, i mobili che si sgretolano: immagini che non si dimenticano, che si imprimono come tatuaggi invisibili nella memoria del lettore. Szabó ci costringe a guardare la vita senza filtri, senza anestesia. E noi, giovani o meno, ci ritroviamo a protestare: "Dammi un po' di finzione, ti prego!". Ma la verità è che non possiamo più tornare indietro: una volta aperta la porta di Emerenc, non si richiude. Emerenc, con la sua dedizione assoluta al lavoro, con il suo amore per gli animali, con la sua inflessibilità morale che non ammette compromessi, diventa progressivamente una figura mitica, quasi archetipica, e tuttavia radicata nella concretezza più spietata della vita quotidiana; è proprio questa ambivalenza a renderla indimenticabile, perché ci obbliga a riconoscere che la verità dell'esistenza non si lascia mai ridurre a un'immagine univoca, ma si manifesta sempre come tensione, come conflitto, come enigma.

Il romanzo come specchio di sé

La forza di La porta sta nel suo prisma di memorie. Leggendolo, non ci limitiamo a seguire la storia di Magda ed Emerenc: ci ritroviamo dentro altre vite, vite che non abbiamo mai vissuto ma che ci appartengono. È come se Szabó ci dicesse: "Non sei solo spettatore, sei parte di questo dramma". E allora il romanzo diventa specchio, diventa confessione, diventa ferita che non si rimargina. Il romanzo, in questo senso, non è soltanto un racconto commovente, ma un esercizio didattico nel senso più alto del termine: ci educa alla complessità, ci insegna che la vita non può essere semplificata senza perdere la sua sostanza, e che ogni relazione autentica comporta il rischio di essere feriti, di essere messi alla prova, di dover accettare l'alterità dell'altro senza ridurla a ciò che ci è comodo.

Filosofia dell'amore e della morte

Forse il gesto più radicale che La porta ci consegna è l'idea che lasciare morire possa essere il più grande atto d'amore. Non un abbandono, ma un riconoscimento: la vita non si possiede, si accompagna. Per un lettore giovane, immerso in un mondo che idolatra la performance e la sopravvivenza a ogni costo, questa è una lezione destabilizzante. Amare significa anche saper lasciare andare. E non c'è nulla di più rivoluzionario di questo. 

La porta che nessuno può varcare diventa allora metafora della condizione umana: ciascuno di noi custodisce un nucleo inviolabile, un segreto che non può essere svelato, e tuttavia la relazione con l'altro si gioca proprio su questo limite, su questa soglia che non si attraversa ma che si impara a rispettare. È qui che il romanzo si fa filosofia, perché ci mostra che la dignità dell'esistenza consiste non nel possedere, ma nell'accompagnare, non nel dominare, ma nel riconoscere.


Perché non è celebrato come dovrebbe?

La porta è noto, premiato, tradotto. Ma non abbastanza. Non è ancora percepito come uno dei pilastri del Novecento. Forse perché non si lascia incasellare, non si presta a slogan, non si riduce a un "tema". È troppo vivo, troppo scomodo. Ma proprio per questo è necessario. Per chi l'ha letto, per chi lo leggerà, per chi ancora non sa che la sua vita cambierà dopo averlo aperto.


E quando, nel finale, si affaccia la domanda se lasciare morire possa essere il più grande atto d'amore, Szabó ci consegna una lezione che va oltre la letteratura: ci invita a comprendere che l'amore non è soltanto cura e protezione, ma anche capacità di lasciar andare, di accettare che la vita ha un termine e che la nostra responsabilità non è quella di negarlo, bensì di renderlo umano, dignitoso, condiviso. Per questo La porta, ancor di piùè il romanzo perfetto: non perché privo di difetti, ma perché capace di trasformare la lettura in un'esperienza formativa, in un esercizio di verità che ci accompagna ben oltre le pagine. È un libro che non si consuma, ma che si sedimenta, che resta, che continua a lavorare dentro di noi come un maestro silenzioso.



Ci sono libri che non hanno bisogno di essere difesi: esistono, respirano, ci attraversano. Non sono semplicemente "grandi romanzi", ma esperienze che ci cambiano. Ci sono opere che non si limitano a raccontare una storia, ma che si impongono come veri e propri dispositivi di pensiero, capaci di trasformare la percezione che abbiamo della vita e di...

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