Scrittura, corpo e destino: riflessioni sulla vita e sulla morte

04.12.2025

Dedicato a Pippo Fiorito


Ogni anima sensibile percepisce, almeno una volta, questa tensione: la parola che non basta, il linguaggio che si spezza, e la necessità di un gesto che travalichi la scrittura. La letteratura, in questi casi, non è più un ornamento, ma un atto di verità. Un testo come gesto performativo.
La vicenda di Édouard Levé, che consegna il suo manoscritto all'editore e si toglie la vita dieci giorni dopo, ci pone davanti a un paradosso radicale: la scrittura non è più soltanto rappresentazione, ma diventa atto performativo. Il libro non è un oggetto esterno, ma coincide con il gesto stesso dell'autore, con la sua ultima decisione. In questo senso, il testo diventa insuperabile: non perché sia perfetto, ma perché è inseparabile dalla vita e dalla morte che lo hanno generato.


Il testo come gesto insuperabile

Nella categoria dei testi performativi, Suicidio di Édouard Levé è insuperabile. Non perché sia un capolavoro nel senso canonico, ma perché è inseparabile dal gesto che lo ha generato: dieci giorni dopo aver consegnato il manoscritto all'editore, Édouard Levé si tolse la vita. La scrittura diventa così atto esistenziale, non più rappresentazione ma compimento. Ogni parola è caricata di un peso che eccede la letteratura, e trasforma il libro in un documento radicale di verità.

Vita e morte come prospettive intrecciate

La vicenda di Levé ci obbliga a guardare la vita e la morte non come opposti, ma come prospettive intrecciate. La morte non è soltanto fine, ma anche compimento di un percorso; la vita non è soltanto durata, ma anche tensione verso un limite.

Ogni anima sensitiva vive questa dialettica: la consapevolezza che la vita è fragile, che ogni gesto può essere ultimo, e che proprio questa fragilità dà valore al tempo che ci è concesso. La morte, lungi dall'essere solo negazione, diventa lo specchio che restituisce senso alla vita.

La scrittura di Édouard Levé, consegnata poco prima del suicidio, è un esempio estremo di questa dialettica: il libro è insieme testimonianza di vita e segno di morte, parola che resta e gesto che si interrompe.

La pelle come luogo della verità

Il frammento insiste sul vivere "sulla propria pelle". È un'immagine potente: la pelle è il confine tra l'interno e l'esterno, tra l'anima e il mondo. È lì che si sente il dolore, la vergogna, la gioia, la memoria.

Ogni anima sensibile porta sulla pelle le tracce della propria storia: cicatrici visibili e invisibili, segni di differenza, impronte di esperienze. La pelle è il luogo della verità, perché non mente: mostra ciò che è stato vissuto, anche quando le parole non riescono a dirlo.

In questo senso, la pelle diventa il vero testo performativo: scrittura vivente, che racconta la vita e la morte senza bisogno di alfabeti.

La dignità della fragilità

Il frammento su Édouard Levé ci invita a riconoscere la dignità della fragilità. La vita sensibile è fatta di crisi, di dettagli corporei, di parole spezzate. La morte non è un tabù, ma una prospettiva che accompagna ogni gesto.

Ogni anima che sente intensamente sa che la verità non sta nella perfezione, ma nella capacità di abitare la propria vulnerabilità. La scrittura, il corpo, la pelle: sono i luoghi in cui questa verità si manifesta.

In fondo, ciò che resta insuperabile non è il gesto estremo, ma la possibilità di trasformare la fragilità in legame, la crisi in apertura, la morte in specchio della vita.


La simmetria crudele di Édouard Levé

In Autoportrait, Édouard Levé menziona la morte di un amico della sua adolescenza che, a 25 anni, si spara un colpo in testa. Suicidio narra, a partire da quell'episodio, la vita di quell'amico e tutto ciò che la sua morte risveglia: un mondo perduto e ritrovato negli angoli della memoria e dell'ossessione. Ma se inizialmente il racconto sembra costruire un ritratto vivo di quell'amico, attraverso sentimenti e pensieri, presto diventa impossibile non pensare che sia Levé stesso a parlare di sé e della propria possibile morte. Evento che concretizza con i suoi stessi mezzi pochi giorni dopo aver consegnato il manoscritto di Suicidio al suo editore.

Senza dubbio, questo è il libro che consacra Levé come scrittore a pieno titolo, un libro destinato a durare. Ci troviamo di fronte a un romanzo inclassificabile che ti lascia la mente in una dimensione dove ciò che è speculato, desiderato e temuto sembra conformare una sola natura, quasi un unico destino. La vita e l'opera di Levé spaventano per la loro simmetria, la loro pulizia, la loro rotondità e la loro crudeltà da samurai. Da Mishima non si conosceva un impegno così definitivo nel fare della vita e della morte un'esperienza tanto accoppiata all'opera quanto le due metà di un rombo o le due facce di Giano.

Come Mishima, Levé concepisce la scrittura come gesto totale, inseparabile dalla vita e dalla morte. La sua opera è "pulita" e "rotonda" perché non lascia margini: ogni frammento trova compimento nel gesto finale. La metafora delle "due facce di Giano" o delle "due metà di un pesce" esprime la fusione perfetta tra esistenza e arte, tra parola e destino. In questo senso, Suicidio non è solo un romanzo, ma un atto filosofico: un testo che interroga la possibilità di dare coerenza alla vita attraverso la morte, e che trasforma la letteratura in un campo di verità radicale.


Yukio Mishima ed Édouard Levé sono due figure che hanno trasformato la loro vita e la loro morte in un gesto artistico, rendendo inseparabile l'opera dall'esistenza. Entrambi hanno incarnato la scrittura come atto performativo, dove il confine tra arte e destino si dissolve.

Yukio Mishima (1925–1970)

Nato a Tokyo come Kimitake Hiraoka, Yukio Mishima fu scrittore, drammaturgo, poeta, attore e regista. È considerato uno dei più importanti autori giapponesi del XX secolo. Tra i suoi testi più celebri ci sono Confessioni di una maschera (1949), romanzo autobiografico che esplora identità e desiderio; Il padiglione d'oro (1956), ispirato a un fatto reale; e la tetralogia Il mare della fertilità (1969–1971), considerata il suo capolavoro. La tetralogia si snoda in un Giappone caratterizzato sia da una cultura ancestrale sia da una invadente modernità e prelude a quel drammatico 25 novembre 1970 quando Mishima, scritte le ultime parole della tetralogia, si suicidò con l'antico rituale del seppuku. Mishima coltivava un culto della bellezza, della disciplina e della morte. La sua scrittura univa raffinatezza stilistica e simbolismo, con una forte tensione tra eros e thanatos. Il 25 novembre 1970, dopo un tentativo di insurrezione simbolica, compì appunto il seppuku (suicidio rituale dei samurai) in una base militare di Tokyo. Questo atto fu interpretato come protesta contro la modernità e come compimento estetico della sua opera.

Édouard Levé (1965–2007)

Scrittore, fotografo e pittore francese, Levé fu noto per la sua ricerca concettuale e per la fusione tra arti visive e letteratura. Le sue opere principali: Œuvres (2002): catalogo di oltre 500 opere immaginarie, riflessione sull'arte come idea. Autoportrait (2005): autoritratto in frasi impersonali, che dissolve l'identità in frammenti. Suicidio (2008): romanzo in seconda persona, dedicato a un amico morto suicida, ma percepito come autoritratto velato. Levé si tolse la vita pochi giorni dopo aver consegnato il manoscritto. La sua scrittura è frammentaria, impersonale, segnata dalla crisi del linguaggio e dell'identità. La fotografia concettuale e la prosa si rispecchiano nella tensione tra presenza e assenza, vita e morte. Come Mishima, Levé ha reso la sua morte inseparabile dalla sua opera, trasformando Suicidio in un testo performativo che coincide con il destino dell'autore.


La simmetria tra vita e opera, che in Mishima si compie nel rituale del seppuku e in Levé nel silenzio del suicidio, ci mostra come la morte possa diventare non soltanto fine, ma compimento estetico. Due gesti lontani nello spazio e nel tempo, eppure uniti dalla stessa radicalità: fare della scrittura e dell'arte un luogo dove la vita si consuma e si trasfigura.

Mishima incarna la tradizione, Levé la modernità; il primo affida alla lama la sua verità, il secondo alla parola spezzata. Ma entrambi ci consegnano un'eredità che non si può leggere senza tremare: l'opera come sacrario, la pagina come pelle, la morte come specchio della vita.
In fondo, ciò che resta non è il gesto estremo, ma la domanda che essi ci lasciano: può l'arte contenere la totalità dell'esistenza? La risposta non è mai definitiva, ma si rinnova ogni volta che un'anima sensibile si riconosce nella fragilità, e trova nella scrittura — o nel silenzio — il proprio destino.




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Ogni anima sensibile percepisce, almeno una volta, questa tensione: la parola che non basta, il linguaggio che si spezza, e la necessità di un gesto che travalichi la scrittura. La letteratura, in questi casi, non è più un ornamento, ma un atto di verità. Un testo come gesto performativo.
La vicenda di Édouard Levé,...