
Una vite che fa pensare: il gesto minimo che libera il ragionamento
L'EDITORIALE DI ABEL GROPIUS
C'è una saggezza antica nei gesti piccoli. Una saggezza che la nostra epoca, ossessionata dalla performance e dalla diagnosi, tende a dimenticare. Eppure, a volte, basta una vite che scorre avanti e indietro su una matita per restituire a un ragazzo il diritto di pensare a modo suo.
Questa è la storia di un quattordicenne che non riusciva a stare fermo. Le sue mani erano un linguaggio a parte: smontavano penne, ticchettavano superfici, cercavano un ritmo che la scuola non sapeva ascoltare. "È distratto", dicevano. "Non si concentra". E subito dopo: "Avete pensato ai farmaci?"
Ma nessuno si chiedeva se, forse, il suo cervello avesse bisogno di muoversi per pensare. Nessuno, tranne sua madre. Che ha continuato a osservare, a cercare, a credere che dietro quel movimento incessante ci fosse un'intelligenza in cerca di forma.
Un giorno, per caso, ha trovato un artigiano. Uno che non produceva soluzioni miracolose, ma matite. Matite filettate, con una piccola vite che scorreva avanti e indietro. Un oggetto semplice, quasi banale. Eppure, in quella vite, c'era un'idea rivoluzionaria: che il pensiero non è sempre immobile, che la concentrazione può avere un ritmo, che il corpo non è un ostacolo alla mente, ma il suo alleato.
Il primo giorno di scuola con quella matita, il ragazzo ha seguito tutta la lezione di matematica. Nessuna penna smontata, nessun richiamo. Solo il movimento silenzioso di una vite, su e giù, mentre i numeri prendevano forma.
La professoressa ha chiesto dove l'avessero trovata. E da lì, quell'artigiano ha iniziato a produrne per altri ragazzi. Perché no, non tutti imparano stando fermi. Alcuni hanno bisogno di muovere le mani per mettere ordine nei pensieri.
Una pedagogia del gesto
Questa storia non è solo un aneddoto commovente. È una lezione pedagogica, filosofica, sociale. Ci ricorda che l'educazione non è un sistema da cui estrarre conformità, ma un ascolto radicale delle differenze. Che il corpo non è un nemico della mente, ma il suo primo strumento. Che la semplicità, quando è pensata con cura, può essere più potente di mille strategie complesse. In un mondo che medicalizza l'irrequietezza e premia la standardizzazione, una vite che scorre su una matita diventa un atto di resistenza. Un modo per dire: "Ti vedo. Ti ascolto. Non voglio cambiarti, voglio capirti".
E forse è proprio questo il compito più alto dell'educazione: non correggere, ma accogliere. Non normalizzare, ma liberare. Non spegnere il movimento, ma dargli una direzione.
Perché a volte, per pensare, basta poter muovere una vite. E sapere che qualcuno ha creduto che quel gesto valesse la pena.

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