
La mappa spezzata: genealogia e destino della dicotomia politica
Che cosa succede a una democrazia quando le sue categorie fondamentali di orientamento – "destra" e "sinistra" – diventano opache, contestate, svuotate? Non è solo un problema di lessico. È un problema di bussola collettiva. Per quasi due secoli, in Europa e non solo, "destra" e "sinistra" non sono state semplici etichette; sono state strumenti cognitivi. Hanno permesso di collocare attori, idee, conflitti all'interno di una mappa condivisa. Si poteva dissentire in modo feroce, ma ci si capiva: "sono di sinistra su X, di destra su Y". Oggi, quella mappa sembra deteriorata. C'è chi annuncia la fine di questo binomio, chi lo supera con nuove coppie di opposti, chi lo difende come indispensabile, chi lo usa in maniera puramente identitaria, quasi folkloristica. Un'analisi sociologica non può limitarsi a constatare la crisi delle parole. Deve chiedersi perché si produce, quali trasformazioni materiali e simboliche la alimentano e, soprattutto, che cosa la sostituisce – perché il conflitto politico non sparisce mai, cambia solo forma, linguaggio e luoghi.
Destra e sinistra come dispositivi storici, non come essenze
Per capire la crisi di destra e sinistra bisogna prima fare un passo indietro: considerarli non come "nature" immutabili, ma come dispositivi storicamente situati.
1.1. Una nascita spaziale, non ideologica
La distinzione nasce fisicamente, nello spazio dell'Assemblea nazionale francese: chi siede a destra e chi a sinistra presagisce la disposizione rispetto al re, alla tradizione, al cambiamento. Solo dopo questa disposizione fisica viene caricata di significati:
Sinistra: eguaglianza, progresso, emancipazione, attenzione ai ceti popolari;
Destra: ordine, gerarchia, proprietà, tradizione, difesa dei ceti possidenti.
Queste semplificazioni si sono poi arricchite, contraddette, ibridate, ma l'asse simbolico ha retto a lungo.
1.2. L'effetto della Guerra fredda: un congelamento delle identità
Nel Novecento, soprattutto dopo il 1945, la dicotomia destra/sinistra viene innestata sul grande spartiacque comunismo/anticomunismo. La Guerra fredda non crea la distinzione, ma la irrigidisce. L'effetto sociologico è duplice:
da un lato, semplifica: chi sta "a sinistra" tende a collocarsi, anche per riflesso, nel campo progressista, talvolta filosovietico o comunque antiamericano; chi sta "a destra" si riconosce nell'anticomunismo, nella difesa dell'ordine occidentale, nel mercato;
dall'altro lato, stabilizza appartenenze e culture politiche, producendo subculture dense (partiti, sindacati, giornali, associazioni, circoli) che danno identità, narrazioni, rituali.
Questa stabilizzazione però ha un costo: quando la struttura che la regge (la Guerra fredda e i suoi blocchi) crolla, la dicotomia perde il suo ancoraggio materiale.
La fine della Guerra fredda: un vuoto di mappa
Con la caduta del Muro di Berlino e il collasso dell'URSS, la semplificazione comunismo/anticomunismo si dissolve. Ma la dissoluzione della dicotomia geopolitica non comporta automaticamente la nascita di una nuova mappa condivisa.
2.1. Il trionfo del mercato come "orizzonte unico"
Negli anni Novanta e Duemila, globalizzazione neoliberale e integrazione europea producono un quadro in cui:
il mercato viene percepito come orizzonte inevitabile, più che come scelta politica;
privatizzazioni, deregolazioni, apertura dei capitali appaiono spesso come "tecniche", non come opzioni conflittuali.
Molte forze tradizionalmente di sinistra accettano – con intensità diversa – questo quadro. Il risultato è che la distinzione tra destra e sinistra, almeno sul piano economico, si appiattisce nella percezione di parte dell'elettorato. Se su economia, Europa, globalizzazione le differenze sembrano minori, la dicotomia perde nitidezza.
2.2. La crisi dei partiti come comunità politiche
Parallelamente, la trasformazione dei partiti in "partiti leggeri", personalizzati e mediatizzati indebolisce la funzione formativa e identitaria delle appartenenze politiche. Sociologicamente:
si riduce la capacità dei partiti di produrre visioni del mondo coerenti;
le persone vivono più come consumatori di offerte politiche che come membri di una comunità politica duratura.
In questo contesto, "essere di destra" o "essere di sinistra" diventa per molti un'etichetta flessibile, non una traiettoria di vita, una subcultura, un destino.
Il proliferare di nuove dicotomie: quando la mappa si frantuma
La crisi dei significati tradizionali non produce il vuoto, ma l'affollamento. Al posto di un asse dominante (destra/sinistra) emergono molte linee di frattura simultanee.
3.1. Mercato vs. Stato, ma in forme spurie
Una prima coppia che ambisce a sostituire destra/sinistra è quella tra:
liberismo (o "mercatismo"): fiducia nell'autoregolazione economica, centralità della competizione, riduzione del ruolo dello Stato;
statalismo: richiesta di protezione, intervento pubblico, regolazione.
Questa coppia però non si sovrappone nettamente alle vecchie famiglie politiche. Esistono:
destre liberiste e destre stataliste;
sinistre che difendono fortemente lo Stato sociale e sinistre che abbracciano il mercato globale.
La conseguenza è una ibridazione: l'elettore non può più orientarsi semplicemente dicendo "sto con lo Stato, dunque sono di sinistra" o "sto col mercato, dunque sono di destra". I programmi politici combinano elementi presi da repertori diversi, spesso in modo contraddittorio.
3.2. Alto vs. basso, centro vs. periferia
Un'altra dicotomia che emerge con forza è quella tra:
alto: élite politiche, tecnocratiche, finanziarie, professionali, spesso percepite come transnazionali;
basso: popolo, "gente comune", territori marginalizzati.
Questo asse si intreccia con quello centro/periferia:
centri metropolitani, integrati nella globalizzazione, culturalmente progressisti;
periferie urbane e aree interne, che vivono più direttamente precarizzazione, abbandono, frustrazione.
Molti movimenti etichettati come "populisti" si collocano proprio su questa diagonale alto/basso, più che su quella classica destra/sinistra. E infatti attraggono elettori provenienti da entrambe le tradizioni.
3.3. Apertura vs. chiusura
Un ulteriore asse è quello tra:
apertura: verso il mondo, le migrazioni, il multiculturalismo, l'innovazione, l'integrazione sovranazionale;
chiusura: difesa dei confini, protezionismo, sovranismo, recupero di identità nazionali o locali forti.
Qui vediamo coalizioni inedite: una parte delle sinistre storiche si schiera sull'apertura, insieme a segmenti di centro-destra liberale; mentre altre componenti, tradizionalmente legate a ceti popolari insicuri, si spostano verso posizioni di chiusura – talvolta intercettate da forze di destra radicale. Il risultato di questi assi incrociati è una mappa frammentata, dove destra e sinistra continuano a esistere, ma come "ombre", non più come linee nette.

Il "settore plurale": società civile, reti e conflitti diffusi
Nell'orizzonte post-Guerra fredda, un'altra figura entra in scena: quel "settore plurale" spesso identificato con la società civile, il mondo delle associazioni, dei movimenti, delle ONG, dei comitati territoriali, delle reti informali.
4.1. La società civile come contro-potere, ma non necessariamente "di sinistra"
La narrazione del "terzo settore" o del "settore plurale" come nuovo soggetto capace di bilanciare Stato e mercato è seducente: sembra sganciare l'idea di emancipazione dalla mediazione partitica. Tuttavia, sociologicamente:
la società civile non è un soggetto unitario;
ospita al suo interno associazioni progressiste, movimenti conservatori, gruppi religiosi, comitati localisti, lobby professionali.
Non è dunque "naturalmente" di sinistra, né "naturalmente" democratica. È un campo di conflitti, non un soggetto etico univoco.
4.2. La retorica del "civico" come depoliticizzazione
Negli ultimi decenni, la valorizzazione del civismo e della società civile è stata spesso usata anche per:
delegittimare il conflitto politico organizzato ("non siamo né di destra né di sinistra, siamo cittadini");
proporre una politica moralizzata, dove le differenze di interesse e di posizione sociale vengono rese invisibili.
Il rischio è che il "settore plurale" diventi il luogo in cui i conflitti strutturali – di classe, di genere, di razza, di territorio – vengano neutralizzati nel nome di un generico "bene comune" mai definito in modo conflittuale.
Populismi e nuove destre: oltre la dicotomia o sua torsione?
Molti teorici della "fine di destra e sinistra" hanno intravisto nei populismi contemporanei la prova definitiva di questa crisi. Ma il rapporto tra populismo e dicotomia classica è più ambiguo.
5.1. Il populismo come stile, non come posizione sull'asse
Il populismo, inteso come logica politica, consiste nella costruzione di un antagonismo tra "popolo puro" ed "élite corrotte". Questa logica può essere:
di destra, quando individua come nemico interno lo straniero, il migrante, l'"altro" culturale;
di sinistra, quando individua come nemico i poteri economici, le oligarchie finanziarie, la tecnocrazia.
In entrambi i casi, il populismo ridefinisce la mappa, ma non la annulla: semplicemente sposta il baricentro del conflitto da "destra vs. sinistra" a "alto vs. basso". Tuttavia, la collocazione dei contenuti resta leggibile: ci sono populismi che rafforzano diritti sociali e civili, e populismi che li restringono.
5.2. Le nuove destre identitarie
Le nuove destre europee, spesso ispirate a genealogie culturali che avevano già riflettuto "al di là della destra e della sinistra", combinano:
critica della democrazia liberale e delle sue istituzioni rappresentative;
rifiuto di alcune libertà civili e culturali associate alle sinistre;
difesa di un'identità nazionale, etnica o religiosa.
Qui la dicotomia destra/sinistra sembra in crisi solo se la riduciamo all'asse economico. Ma se includiamo i temi di identità, appartenenza, gerarchia, esclusione, il tratto "di destra" appare ancora riconoscibile, pur in forme mutate.
La persistente utilità, anche critica, di destra e sinistra
Arriviamo allora al punto: ha ancora senso parlare di destra e sinistra? O dobbiamo archiviare del tutto queste categorie?
Una risposta sociologica non può essere puramente normativa ("sì, perché mi piacciono", "no, perché mi sono antipatiche"). Deve interrogare le pratiche sociali, i discorsi, le strutture.
6.1. Come etichette di auto-rappresentazione
Innanzitutto, destra e sinistra continuano a essere usate:
dagli attori politici, per identificarsi o differenziarsi;
dai media, per semplificare lo spazio politico;
dagli individui, per collocarsi ("mi sento più di sinistra", "sono moderatamente di destra").
Finché queste etichette vengono mobilitate, esse hanno una funzione, anche se imperfetta. Una categoria è viva finché è usata, non finché è coerente.
6.2. Come strumenti analitici imperfetti ma non sostituibili
Sul piano analitico, destra e sinistra hanno il merito di ricordarci che:
esistono conflitti sulla distribuzione delle risorse (ricchezza, reddito, opportunità);
esistono conflitti sui diritti (civili, sociali, politici);
esistono conflitti sul peso della tradizione rispetto al cambiamento.
Possiamo certo integrare queste categorie con altri assi (apertura/chiusura, alto/basso, centro/periferia), ma è difficile farne a meno se vogliamo pensare la politica come luogo di antagonismo strutturale, e non solo come amministrazione tecnica di problemi.
6.3. Il rischio della neutralizzazione
L'abbandono retorico di destra e sinistra è spesso accompagnato dall'idea di una politica "né di destra né di sinistra":
pragmatica,
manageriale,
centrata sulla soluzione tecnica dei problemi.
Questa neutralizzazione del conflitto è sociologicamente fragile: sotto la superficie della "competenza" ri-emergono sempre interessi divergenti, rapporti di forza, esclusioni. Senza nomi per queste linee di frattura, rischiamo solo di renderle meno visibili, non meno reali.
Verso una nuova grammatica del conflitto politico
Forse la domanda non è se destra e sinistra siano morte, ma come ridefinirle all'interno di una grammatica più ricca e più fedele alla complessità del presente.
7.1. Un lessico a più dimensioni
Un approccio sociologico potrebbe proporre una mappa non unidimensionale, ma a più assi:
asse economico: redistribuzione vs. mercato;
asse culturale: universalismo dei diritti vs. identitarismo;
asse istituzionale: partecipazione dal basso vs. verticalismo autoritario;
asse geopolitico: sovranismo/chiusura vs. cooperazione internazionale.
In questo spazio multidimensionale, "destra" e "sinistra" non sono più linee nette, ma poli di attrazione che organizzano costellazioni di posizioni. La politica diventa una lotta anche per definire che cosa significhi oggi "essere di sinistra" o "essere di destra", non solo per occupare quei posti.
7.2. La responsabilità dei produttori di discorso
Infine, la crisi di destra e sinistra è anche una crisi di narrazione. Intellettuali, giornalisti, attivisti, artisti, accademici – tutti i produttori di discorso pubblico – hanno un ruolo nel:
semplificare in modo ingenuo ("ormai destra e sinistra non esistono più");
oppure complicare in modo sterile (proliferando etichette incomunicabili al senso comune).
La sfida è un'altra: costruire un linguaggio che tenga insieme analisi rigorosa e capacità di parlare al desiderio, alla paura, all'immaginario delle persone. Un linguaggio che non rinunci a nominare i conflitti e le diseguaglianze, ma che sappia anche riconoscere la pluralità delle appartenenze e delle identità.

La crisi come occasione di chiarificazione
La crisi delle categorie di destra e sinistra non è un semplice declino semantico. È il sintomo di trasformazioni profonde:
della struttura economica (globalizzazione, precarizzazione, digitalizzazione);
delle forme della politica (personalizzazione, mediatizzazione, crisi dei partiti);
dei conflitti sociali (nuove linee identitarie, culturali, territoriali);
delle aspettative democratiche (richiesta di partecipazione vs. chiusura autoritaria).
Da una prospettiva sociologica, l'annuncio della "fine di destra e sinistra" è interessante non perché descriva fedelmente la realtà, ma perché rivela il disagio nel leggere una realtà che ha moltiplicato i propri assi di frattura. Il compito non è nostalgico (difendere le vecchie etichette a ogni costo), ma critico: capire quali conflitti esse contenevano e contengono ancora, quali ne sfuggono, quali nuove parole possono mostrare ciò che oggi resta invisibile.
La democrazia pluralista, finché esiste, produce antagonismi. La domanda non è se ci sia uno scontro; la domanda è se abbiamo un linguaggio adeguato per pensarlo, raccontarlo e trasformarlo. Destra e sinistra, forse, non bastano più; ma cancellarle senza sostituirle con una grammatica altrettanto capace di nominare potere, diseguaglianza, sfruttamento e emancipazione significa consegnare il conflitto alla confusione – o peggio, ai discorsi che lo mascherano in nome di una falsa neutralità.
A PROPOSITO DI..
La sinistra come oggetto storico: tra cultura politica, rappresentazione e forme del politico
L'alternativa destra–sinistra, lungi dall'essere un semplice residuo semantico della modernità parlamentare, può essere letta come una grammatica persistente del politico, un dispositivo di classificazione che sopravvive ai mutamenti dei contenuti perché radicato nelle forme della rappresentazione. In questo senso, la riflessione post-marxista di Ernesto Laclau offre un punto d'ingresso decisivo: il politico non è primariamente un insieme di programmi, ma un campo di articolazioni simboliche, di costruzione di identità collettive, di narrazioni che rendono possibile l'azione. Assumere questa prospettiva significa spostare l'attenzione dalla storia dei partiti alla storia delle culture politiche: non semplici ideologie, ma sistemi di senso, repertori simbolici, pratiche, rituali, memorie, linguaggi. È qui che la sinistra italiana del Novecento diventa un oggetto storico particolarmente fecondo: non solo perché più studiato, ma perché più ricco di stratificazioni identitarie, più denso di forme di socializzazione politica, più capace di generare una vera e propria contro-società.
Seguendo l'impostazione di Serge Berstein, la cultura politica è un dispositivo che produce norme, valori, visioni del mondo e comportamenti. È un ambiente cognitivo e al tempo stesso un ambiente affettivo. Studiare la sinistra attraverso questa lente significa:
superare la storia evenemenziale e la cronologia dei gruppi dirigenti
includere pratiche quotidiane, simboli, rituali, forme di militanza
leggere le organizzazioni come produttori di senso, non solo di decisioni
riconoscere la dimensione performativa del politico
In questa prospettiva, il Novecento non è solo un secolo di eventi, ma un secolo di formazioni identitarie: la società di massa, la Guerra fredda, la costruzione di appartenenze collettive, la politicizzazione dei linguaggi e dei corpi.
La scelta di concentrarsi su alcune culture politiche della sinistra — e non su tutte — non è una rinuncia, ma un atto teorico: riconoscere che la sinistra italiana non è un blocco, ma un arcipelago di mondi simbolici, ciascuno con un proprio modo di articolare il rapporto tra individuo, comunità e storia. Il comunismo, con la sua vocazione totalizzante, rappresenta il caso più evidente; ma anche le altre culture politiche della sinistra mostrano, in forme diverse, la tensione tra radicamento sociale e costruzione identitaria.
Questa cornice permette di leggere la sinistra non come un insieme di posizioni programmatiche, ma come un laboratorio di forme del politico, un luogo in cui si sono sperimentate modalità di partecipazione, di rappresentazione, di costruzione del senso comune. È in questo laboratorio che si comprende la sua storia, e forse anche la sua eredità.

Che cosa succede a una democrazia quando le sue categorie fondamentali di orientamento – "destra" e "sinistra" – diventano opache, contestate, svuotate? Non è solo un problema di lessico. È un problema di bussola collettiva. Per quasi due secoli, in Europa e non solo, "destra" e "sinistra" non sono state semplici etichette; sono state...
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C'è un punto, nella riflessione di Andrea Zanzotto, che continua a vibrare come una corda tesa tra due estremi: la poesia nasce e muore nella lingua che l'ha generata. Non è un vezzo filologico, né un dogma estetico. È un'intuizione radicale: la poesia è un evento irripetibile, un accadere che coincide con il suo stesso corpo linguistico....



