
La foglia di fico e il prezzo della complicità: Gaza, Israele e il naufragio della coscienza
Questa settimana, il centro estremo ha avuto il suo da fare. Francia, Canada e Gran Bretagna hanno riconosciuto lo Stato palestinese. Per alcuni, è stato un premio a Hamas. Per altri, una necessità diplomatica per coprire il sostegno incondizionato a Israele durante una guerra che ha devastato Gaza per due anni. Ma la domanda che brucia sotto la superficie è: chi ha reso possibile questa narrazione? Chi ha sostenuto la guerra, chi ha normalizzato la fame, chi ha chiesto quasi l'annientamento? La risposta è scomoda. È "tu". È "noi". È chi ha scelto la distanza invece della vicinanza.
Questo articolo non offre soluzioni. Non pretende di avere ragione. Ma chiede una cosa sola: responsabilità. Non quella astratta, collettiva, ma quella personale. Quella che si prende quando si smette di dire "loro" e si comincia a dire "noi". Quando si smette di cercare consolazione e si comincia a sviluppare coscienza e cercare la "giusta" verità.
La retorica del premio e la realtà della foglia di fico
Hamas presenta il riconoscimento come una vittoria. E ha ragione. Non perché abbia vinto, ma perché il riconoscimento arriva nel momento in cui Israele è isolato, e l'Occidente ha bisogno di una narrazione che lo assolva. La foglia di fico serve a coprire il sostegno a una guerra che ha lasciato Gaza in macerie. Ma questa foglia non copre la vergogna. La macchia del genocidio, come la chiama chi osserva da fuori, non si lava con dichiarazioni diplomatiche. Resterà, e sarà tramandata. I figli degli israeliani dovranno spiegare cosa è stato fatto. E chi lo ha sostenuto, non lo ammetterà mai. Perché non ha quel muscolo in corpo.
L'isolamento internazionale: una scoperta tardiva
L'isolamento di Israele non è una sorpresa. È il risultato di anni di gestione del rischio che ha smantellato ginocchia e vite. È il frutto di una strategia che ha risposto alle "manifestazioni di ritorno" con fuoco e amputazioni. È il prezzo di una politica che ha preferito la repressione alla comprensione. E ora, anche se Israele investisse ogni centesimo nella ricostruzione, Gaza resterà il simbolo di ciò che l'essere umano può fare quando smette di vedere l'altro come umano.
La strada verso l'ottobre: una lunga preparazione
L'inaugurazione di ottobre non è nata dal nulla. È il culmine di scelte fatte e non fatte, di vie ignorate, di alternative scartate. È il risultato di decenni di occupazione, di umiliazione, di negazione. E chi lo riconosce, lo fa con dolore. Perché sa che ogni passo verso la distruzione è stato accompagnato da una giustificazione, da una razionalizzazione, da un rifiuto della responsabilità.
Steinberg e Roy: voci che avevamo ignorato
Nel 2021, Matti Steinberg aveva già avvertito: Hamas non teme la forza militare di Israele. Teme un processo politico reale, che lo costringerebbe a scegliere, a dividersi, a perdere consenso. Ma Israele, consapevolmente o meno, ha sempre agito come alleato strategico di Hamas, sabotando ogni possibilità di accordo con il mainstream palestinese.
Sarah Roy, già nel 2013, scriveva che negare ai palestinesi ciò che tutti desideriamo – dignità, sicurezza, normalità – avrebbe portato a una violenza più estrema. E nel 2018, osservava che la distruzione dei tunnel avrebbe significato distruggere interi quartieri. Hamas lo sapeva, ma era disposto a rischiare. Perché Gaza era già a un punto di ebollizione.
La perdita della complessità e il naufragio della speranza
Dopo l'operazione "Zuk Eitan", Roy notava un cambiamento radicale nella percezione di Israele da parte dei gazawi. Prima, c'era complessità. Dopo, solo disperazione. La coesistenza non era più credibile. La distruzione indistinguibile, gli appelli a "finire il lavoro", avevano cancellato ogni speranza.
La cecità voluta e la distruzione della coscienza
Ma ciò che brucia di più è ciò che Roy scriveva dieci anni fa: il rifiuto di chiedere vicinanza, di vedere l'altro, di entrare nelle sue difficoltà. La missione è rendere tribale il dolore, restringere la sofferenza al nostro gruppo. La cecità voluta distrugge ogni principio, ogni possibilità di completamento. Ma ci consola. Ci assolve. Ci permette di continuare.
Il 7 Ottobre e la responsabilità politica: Netanyahu sotto la lente
Il 7 ottobre 2023 ha segnato una frattura storica nella sicurezza israeliana. L'attacco di Hamas, con la sua brutalità e portata, ha lasciato il paese in stato di shock. Ma mentre il dolore e la paura hanno dominato le prime ore, la domanda che ha lentamente preso forma è una sola: chi è responsabile?
La voce di Assaf David: il fallimento non è solo militare
Nel programma PresaDiretta, il Prof. Assaf David, dell'Università ebraica di Gerusalemme, esperto di politica israeliana, ha offerto una lettura lucida e inquietante: la responsabilità dell'attacco non può essere attribuita solo ai vertici militari. È politica. È sistemica. È Netanyahu.
Assaf David ha sottolineato come il primo ministro abbia indebolito deliberatamente i centri decisionali, riducendo la capacità del governo e del Consiglio di sicurezza nazionale di discutere seriamente le minacce. La sua gestione accentrata, fondata su una logica di controllo e silenziamento, ha impedito che gli avvertimenti provenienti dai servizi di sicurezza venissero ascoltati e discussi.
La commissione civile e il paradigma del "denaro in cambio di silenzio"
Nel novembre 2024, una commissione civile indipendente ha pubblicato un rapporto devastante: Netanyahu è ritenuto responsabile di aver ignorato gli avvertimenti sull'attacco imminente e di aver adottato per anni una strategia di gestione del conflitto con Hamas basata su incentivi economici in cambio di quiete apparente. Questo paradigma, condiviso anche da ex premier come Lapid e Bennett, ha creato un'illusione di stabilità che ha disarmato la vigilanza. Il rapporto accusa Netanyahu di aver contribuito alla riduzione delle forze IDF attorno a Gaza, all'impreparazione dei soldati del Comando Sud e all'abbandono delle osservatrici militari. Una catena di negligenze che ha reso possibile l'attacco del 7 ottobre.
Il messaggio ignorato: la notte prima dell'attacco
Secondo un'inchiesta di Channel 12, le IDF avevano raccolto segnali preoccupanti già alle 3:30 del mattino del 7 ottobre. Il messaggio fu trasmesso all'ufficiale d'intelligence del Primo Ministro, ma ritenuto "non urgente". Netanyahu fu informato solo alle 6:29, quando l'attacco era già in corso. L'ufficio del premier ha difeso la scelta, ma la sequenza temporale solleva interrogativi inquietanti sulla catena di comando e sulla priorità data alla sicurezza.
La riforma giudiziaria e il clima interno
Netanyahu ha respinto le accuse secondo cui la sua controversa riforma giudiziaria avrebbe indebolito la coesione interna e distratto l'apparato di sicurezza. Ma molti analisti, incluso David, vedono in quel clima di polarizzazione un fattore che ha contribuito alla vulnerabilità del sistema.
La responsabilità che non si vuole assumere
In un video pubblicato sui suoi canali social, Netanyahu ha cercato di auto-assolversi, accusando i vertici militari di averlo tenuto all'oscuro. Ma la documentazione, le testimonianze e le analisi convergono: la responsabilità non è solo operativa. È politica. È strategica. È personale.

Questa settimana, il centro estremo ha avuto il suo da fare. Francia, Canada e Gran Bretagna hanno riconosciuto lo Stato palestinese. Per alcuni, è stato un premio a Hamas. Per altri, una necessità diplomatica per coprire il sostegno incondizionato a Israele durante una guerra che ha devastato Gaza per due anni. Ma la domanda che brucia sotto...
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Nel vasto teatro dei social media, ogni post è una miccia. Ma ciò che segue non è quasi mai un'esplosione di pensiero: è una detonazione di commenti, spesso generati da account fake, bot automatici o profili anonimi che sembrano avere un solo scopo — dirottare la conversazione verso il nulla. Non il nulla filosofico, fertile di...