Il coraggio di invecchiare

09.07.2025

scritto da Abel Gropius
SU AWARENESS


Eppure, ci vuole un coraggio immenso a invecchiare. Viviamo in un tempo che celebra la giovinezza come l'unico tempo degno di essere vissuto. Dove tutto corre, tutto brilla, tutto deve apparire. Dove invecchiare è quasi un errore, un cedimento, un difetto da nascondere sotto il trucco, le luci, i filtri. Non è solo questione di tempo che passa, ma di identità che muta. Significa imparare a camminare più lentamente, non solo nel corpo, ma anche nell'anima. Rallentare per ascoltarsi davvero, per riconoscere chi siamo diventati, per salutare con rispetto la persona che eravamo.


Ogni ruga sul volto è una frase incisa dalla vita: parla di risate vere, di notti insonni, di silenzi profondi. Ogni cicatrice, ogni piega, ogni curva racconta che siamo sopravvissuti – alle attese, agli addii, ai giorni in cui sembrava impossibile rialzarsi. Eppure eccoci, ancora qui.

Compiere gli anni è un atto di resistenza gentile. È scegliere di non rinnegare il corpo che ci ha portati fin qui, di non vergognarci del volto che cambia, ma anzi, di abitarlo con fierezza.
È lasciare andare i pesi che nemmeno il tempo ha saputo dissolvere, le paure che non servono più, i giudizi che ci hanno imprigionati per troppo tempo.

Invecchiare non è una resa.
È una rivoluzione interiore.

È il momento in cui smettiamo di correre per piacere agli altri e iniziamo a camminare per stare bene con noi stessi. È quando comprendiamo che non serve trattenere ciò che se ne vuole andare, che alcune assenze sono necessarie, che ogni addio può essere una soglia — verso una versione più essenziale, più libera, più vera di noi.

Ciò che resta, col tempo, è ciò che conta davvero.

I legami profondi.
Le parole che nutrono.
Le cose semplici che un giorno abbiamo imparato a non dare più per scontate: il profumo del pane, una voce amica, un'alba vista senza fretta.

Ogni anno che passa non ci ruba qualcosa, ci restituisce una verità: che il valore non sta nella durata, ma nella pienezza. Che la vita, per quanto fragile, ha ancora spazio per nuovi sorrisi, nuovi sogni, nuove ragioni per continuare.

Invecchiare è un privilegio.
Ma soprattutto, è un'arte.
E come ogni arte, richiede tempo, grazia e soprattutto coraggio.



L'arte di invecchiare: una questione filosofica

Invecchiare è diventato un tabù.
Viviamo in un tempo che esalta la giovinezza come ideale assoluto, come se fosse l'unica stagione degna di valore. Eppure, se ascoltiamo i filosofi – quelli veri, quelli che non temono la verità – ci accorgiamo che l'età che avanza non è una perdita, ma una possibilità. Una soglia. Un cammino.

Cicerone, più di duemila anni fa, scriveva "De senectute", un piccolo trattato sull'età avanzata. Lo scriveva non per lamentarsene, ma per difenderla. Diceva: "Ogni età ha il suo piacere, se si sa godere quello che ha".
Non è una rassegnazione, è una scelta di sguardo. Il giovane guarda avanti, con desiderio. Il vecchio guarda dentro, con saggezza.

Invecchiare, allora, non è un decadimento, ma un passaggio. Come il tramonto non è la fine del giorno, ma il suo compimento.
Nietzsche parlava dell'uomo capace di "diventare ciò che è". Non si riferiva solo alla giovinezza impetuosa, ma anche a quella maturità che sa fare ordine tra le illusioni, tra le cose che contano e quelle che si perdono per strada.

La filosofia, dopotutto, è esercizio alla fine.
Platone lo diceva senza mezzi termini: "Filosofare è imparare a morire"Ma non nel senso tragico del termine.

Morire a ciò che è superfluo. Morire al rumore, alla vanità, alla corsa. Per rinascere a una vita più vera.

Perché invecchiare significa questo: lasciar andare.
Lasciar andare ciò che non serve più.
Lasciar andare l'approvazione degli altri, l'ossessione per il corpo, la paura di perdersi.
E tenere solo ciò che conta: l'amicizia, la memoria, la gratitudine.
Tenere il silenzio che consola. Il tempo che si dilata. Il volto che non ha più bisogno di maschere.

Simone de Beauvoir, che scrisse "La terza età", aveva capito che il vero scandalo della vecchiaia non è l'accumularsi degli anni, ma la nostra incapacità di attribuirgli un senso.
Ecco perché serve la filosofia.
Non per spiegare la vita, ma per imparare ad abitarla. Anche – e soprattutto – quando il tempo inizia a lasciare tracce visibili.

Non c'è vergogna nel corpo che cambia.
Non c'è debolezza nella lentezza.
C'è invece una possibilità rara: quella di diventare interi, di guardarsi allo specchio senza dover dimostrare più nulla.

Chi invecchia bene non è chi resiste al tempo, ma chi impara a camminare con esso.

Allora sì, invecchiare diventa un'arte.
Un esercizio di libertà.
Un atto di verità.


"De senectute" (letteralmente "Sulla vecchiaia") è un dialogo filosofico scritto da Marco Tullio Cicerone nel 44 a.C., poco prima della sua morte, e dedicato all'amico Attico. L'opera è anche conosciuta come "Cato Maior de senectute", poiché il protagonista del dialogo è Marco Porcio Catone il Censore, che, all'età di 83 anni, discute con i più giovani Gaio Lelio e Publio Cornelio Scipione Emiliano.

Cresciamo spesso con il cuore diviso, tirato tra due luoghi che fingono di appartenersi e due anime che faticano a incontrarsi. Quando si arriva al Vomero – un quartiere ordinato, elegante ma privo di odori, voci, volto – si sperimenta uno straniamento che non si riesce a spiegare. Le stanze sono luminose ma sembrano vuote, il marmo nei bagni...

C'è un limite netto tra conflitto costruttivo e confronto sterile. Capire quando evitare un dibattito non è rinunciare alle proprie idee ma proteggere la propria energia mentale e la propria serenità interiore. Parlare con chi non è aperto al dialogo non arricchisce né te, né l'altro: è tempo perso, stress inutile, fonte di amarezza.