Il boomerang perfetto: perché Corona ha già vinto e perché il sistema non ha ancora capito di aver perso

25.12.2025

Dieci milioni di visualizzazioni in due puntate non sono un successo: sono un segnale importante. Un segnale che la televisione italiana non ha voluto leggere, che i media tradizionali hanno ignorato, che il pubblico ha amplificato senza nemmeno rendersene conto. Un uomo seduto su una sedia, sfondo nero, nessuna scenografia, nessun montaggio, nessuna orchestra, nessun conduttore a fare da filtro. Solo un racconto. O meglio: una narrazione costruita con la precisione di chi ha capito che oggi non serve avere ragione, serve avere una storia da raccontareE Fabrizio Corona, piaccia o no, questa storia l'ha costruita con una coerenza che il sistema mediatico non è più in grado di replicare. Non perché sia un giornalista, non perché sia un moralista, non perché sia un eroe. Ma perché ha compreso — prima e meglio di tutti — che l'epoca in cui viviamo non premia la verità, premia la verosimiglianza. Non premia i fatti, premia il racconto che ne può scaturire, falsificato o meno. Non premia la complessità, premia la semplificazione emotiva. E da qui partiamo!


Il caso Signorini può finire in qualunque modo: indagini, archiviazioni, condanne, assoluzioni. Ma sul piano dell'immaginario, Corona ha già vinto. Ha vinto nel momento in cui è riuscito a trasformare se stesso nell'outsider che sfida i potenti, nel ribelle che dice ciò che gli altri non osano dire, nel paladino che combatte un sistema corrotto mentre tutti cercano di fermarlo. Ha vinto perché ha occupato lo spazio che la televisione ha lasciato vuoto: quello della narrazione totale, senza filtri, senza mediazioni, senza pudore.

E qui sta il punto che nessuno vuole vedere: Corona non ha inventato nulla. Ha semplicemente applicato alla perfezione la grammatica del populismo mediatico che la televisione italiana ha coltivato per trent'anni*.



C'è un dato che dovrebbe far tremare i polsi a chiunque si occupi di media: i numeri di Falsissimo non sono semplicemente alti, sono un'anomalia statistica, una frattura nella storia recente della comunicazione italiana, un segnale che non riguarda Fabrizio Corona in quanto individuo ma il sistema che gli ha permesso di diventare un vettore di attenzione così potente. Chiunque abbia mai caricato un video su YouTube sa che sette milioni di visualizzazioni in una settimana non sono un successo: sono un terremoto. E i terremoti non avvengono per caso. Molti si ostinano a leggere questo fenomeno come l'ennesima prova del morboso interesse degli italiani per il gossip, ma questa interpretazione è rassicurante solo per chi non vuole vedere la trasformazione profonda che sta avvenendo sotto i nostri occhi. Falsissimo non è un contenitore di pettegolezzi: è un format che ha intercettato un vuoto, un bisogno, una sfiducia crescente verso la narrazione istituzionale della realtà. È semplice nella forma, ma innovativo nella funzione, perché porta sui social una quantità di materiale, di retroscena, di dinamiche di potere che la televisione ha sempre filtrato, sterilizzato, addomesticato. E lo fa con una conduzione che non è giornalistica, non è politica, non è televisiva: è performativa. Fabrizio alterna rabbia, ironia, provocazione, confessione, teatralità, e in questo oscillare continuo costruisce un linguaggio che non appartiene a nessun medium tradizionale. È uno showman che non ha bisogno di un palco, perché il palco è già esso stesso. Ma il punto non è lui. Il punto è ciò che il suo successo rivela. In questa vicenda non c'è solo il duello personale tra Fabrizio Corona e il mondo dello spettacolo, della politica o della legge. C'è un conflitto molto più grande, quasi epocale: quello tra una televisione che continua a recitare se stessa come se fosse ancora il centro del mondo e un ecosistema digitale che ha smesso da tempo di chiedere permesso. La TV italiana appare sempre più come un organismo stanco, autoreferenziale, convinto di essere immortale solo perché lo è stata per decenni. Ma mentre essa si aggrappa ai suoi rituali, ai suoi salotti, ai suoi conduttori intoccabili, i social network e lo streaming stanno riscrivendo le regole della produzione, della distribuzione e della legittimazione del contenuto. Corona, nel bene e nel male, dimostra che oggi un creator può generare introiti enormi, costruire un pubblico fedele, aggirare filtri e censure, e soprattutto sottrarsi ai giochi di potere che hanno governato per anni il mondo televisivo. Non è un caso che la domanda "quanto ha guadagnato?" sia diventata parte integrante della discussione: perché il guadagno non è solo un dato economico, è un indicatore di autonomia. È la prova che l'industria dei contenuti non appartiene più a chi possiede le antenne, ma a chi possiede l'attenzione. E mentre tutto questo accade, Netflix prepara una serie su Corona con un tempismo che sfiora il chirurgico, quasi a voler sancire la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra. Non è un omaggio: è un'operazione industriale. È la piattaforma globale che riconosce un fenomeno locale e lo ingloba, lo amplifica, lo canonizza. È il colpo di grazia simbolico a una televisione che, invece di reagire, si limita a incassare il colpo, a invitare Signorini in trasmissione come se nulla fosse, a fingere che il mondo non stia cambiando sotto i suoi piedi. Ma il mondo cambia comunque. E la TV italiana, che si crede immortale, scoprirà presto che l'immortalità non è un diritto acquisito, ma un equilibrio fragile che si mantiene solo finché si è capaci di leggere il proprio tempo. Oggi non lo sta facendo. Oggi osserva, subisce, minimizza. E mentre lo fa, il pubblico migra, gli algoritmi avanzano, i creator si emancipano, e il sistema che per anni ha dettato le regole si ritrova improvvisamente a giocare una partita che non controlla più. Il fenomeno Falsissimo non è un incidente: è un sintomo. È la prova che la televisione non è più il centro del discorso pubblico, che la legittimazione non passa più dai palinsesti, che la verità — o ciò che viene percepito come tale — non ha più bisogno di uno studio televisivo per circolare. È un segnale che non riguarda Corona, ma ciò che lo ha reso possibile: un ecosistema mediatico che ha perso autorevolezza, un pubblico che ha perso fiducia, un sistema che ha perso il controllo della propria narrazione. E quando un sistema perde il controllo della narrazione, non è mai immortale. 



Trova un nemico. Costruisci un racconto manicheo. Dai al pubblico un ruolo morale. Attacca chiunque osi contraddirti. Trasforma ogni critica in una prova della tua tesi. E soprattutto: non lasciare mai che i fatti disturbino la narrazione. È un copione antico, ma oggi funziona meglio che mai perché il terreno è stato preparato da decenni di Berlusconismo, di reality, di infotainment, di talk show costruiti sulla rissa, sull'umiliazione, sulla semplificazione. Corona non è un'anomalia: è il prodotto più coerente di questo ecosistema.

E Alfonso Signorini è il nemico perfetto. Potente, visibile, simbolo di un establishment televisivo che da anni vive di autoreferenzialità e di rituali stanchi. Abbatterlo significa colpire non solo un uomo, ma un intero sistema di potere: Mondadori, Mediaset, la famiglia Berlusconi, la televisione come istituzione. Non importa se le accuse siano vere o false: importa che siano credibili, che risuonino con la sfiducia diffusa verso i potenti, che si inseriscano in un immaginario già pronto a riceverle.



Il punto che sfugge — e che noi stiamo cercando di chiarire — è che non stiamo parlando di Fabrizio Corona come individuo, né delle sue qualità comunicative, né della sua "fortuna" nel nascere nel contesto giusto. Ridurre tutto alla sua personalità significa, ancora una volta, personalizzare ciò che è sistemico. È proprio questo il meccanismo che stiamo criticando.

Che Corona sia autoreferenziale è evidente, ma non è questo il nodo: il nodo è che l'autoreferenzialità è diventata la grammatica dominante della comunicazione italiana proprio perché la televisione l'ha normalizzata per decenni. Lui non è l'eccezione: è il prodotto più coerente di quel modello. Non lo ha "rivoltato": lo ha semplicemente portato alle estreme conseguenze, in un ambiente — quello digitale — che non ha più filtri, gerarchie o anticorpi.

Sul linguaggio: non importa se sia una scelta o una coincidenza. Importa che quel linguaggio funziona perché il pubblico è stato educato a recepirlo. Se fosse nato quarant'anni fa, certo, non avrebbe avuto spazio: ma questo non dice nulla su di lui, dice tutto sul livello di alfabetizzazione culturale che il sistema mediatico ha progressivamente eroso. Non è "bravo perché nato nel momento giusto": è efficace perché il terreno è stato preparato da trent'anni di televisione che ha abbassato la soglia critica, semplificato il discorso pubblico e trasformato la comunicazione in performance.

Dire che oggi "ha gioco facile" non è un'analisi: è la conferma del problema. Ha gioco facile perché il livello culturale è stato abbassato sistematicamente. Ha gioco facile perché la TV ha insegnato a confondere il carisma con la competenza. Ha gioco facile perché il pubblico è stato addestrato a reagire, non a comprendere. E allora la questione non è se Corona sia un comunicatore nato. La questione è: come siamo arrivati al punto in cui questo tipo di comunicazione diventa dominante, desiderabile, imitabile? È questo che stiamo dicendo. 

Non che lui sia un genio. Non che sia un innovatore. Non che sia un eroe. Stiamo dicendo che è il sintomo più evidente di un ecosistema che ha perso profondità e che ora subisce il ritorno delle sue stesse distorsioni. E finché si continua a discutere di lui come individuo — talento, fortuna, contesto — si evita di guardare il vero problema: un sistema culturale che ha creato le condizioni perfette perché un linguaggio così elementare, aggressivo e performativo diventasse la norma. Questo è il punto. E da qui non ci si sposta. 



E poi c'è l'attacco ai media. Il pezzo mancante. Il colpo di genio. Fabrizio Corona non si limita a colpire Alfonso Signorini: colpisce chiunque provi a raccontare la vicenda in modo diverso. Giornali, televisioni, siti: tutti complici, tutti parte del sistema, tutti colpevoli di non dire la verità. È una strategia perfetta perché trasforma ogni voce critica in una conferma della sua tesi. E crea una comunità che si sente speciale, informata, superiore: "noi che sappiamo", contro "loro che nascondono".

È la logica degli hobbits e degli hooligans di Jason Brennan: gli ignoranti inconsapevoli e gli ultras ideologici. Corona parla a loro, non ai vulcans. E i vulcans, in questo scenario, non hanno alcuna possibilità.

Il paradosso è evidente: l'unico indagato è Corona. Eppure, nella sua narrazione, è lui l'accusatore. È lui la vittima del sistema. È lui l'uomo che rischia tutto per dire la verità. È lui il protagonista morale della vicenda. E questo ribaltamento è la chiave della sua vittoria. Perché qualunque cosa accada, lui ha già pronta la risposta.

Se Signorini verrà indagato: "Ve l'avevo detto".

Se Signorini verrà archiviato: "Il sistema si protegge".

È una partita win‑win. Una partita in cui il processo reale non conta nulla. Conta solo il processo narrativo. E mentre tutto questo accade, i media tradizionali — dopo giorni di silenzio — si limitano a ribadire ciò che avevano già detto, come se il mondo non fosse cambiato, come se il pubblico fosse lo stesso, come se la televisione avesse ancora l'autorità che crede di avere. Non hanno capito che non sono più loro a dettare il ritmo: è l'algoritmo. Non sono più loro a costruire il racconto: è il creator. Non sono più loro a stabilire la verità: è la percezione.

E allora sì, Corona ha vinto. Non perché abbia ragione. Non perché sia credibile. Non perché sia innocente. Ma perché ha capito prima degli altri che oggi la verità non è ciò che accade: è ciò che il pubblico è disposto a credere.

E finché non si avrà il coraggio di riconoscere che questo è il risultato di trent'anni di televisione che ha educato il paese a confondere il trauma con il format, la ferita con il contenuto, la decadenza con il trend, continueremo a stupirci di ciò che noi stessi abbiamo costruito.

Corona non ha scardinato il sistema. Il sistema si è scardinato da solo. Lui ha solo raccolto i pezzi e li ha trasformati in una storia.

E il pubblico, come sempre, applaude.



A PROPOSITO DI..


Trent'anni di Berlusconismo: 

il paese che dovrebbe piangere e invece applaude

Se c'è qualcosa che dovrebbe generare cordoglio collettivo, non è il successo di Falsissimo, né la decadenza di Signorini, né l'ascesa di Corona come showman digitale. È il fatto che tutto questo sia possibile — e persino celebrato — dopo trent'anni di Berlusconismo, un'egemonia culturale che ha trasformato la televisione italiana in un dispositivo di semplificazione, di anestesia, di regressione cognitiva. Un paese che ha subito per decenni la colonizzazione dell'immaginario da parte di un sistema mediatico fondato sull'intrattenimento come distrazione, sulla bellezza come merce, sulla volgarità come linguaggio comune, dovrebbe oggi fermarsi e piangere. Non per nostalgia, ma per consapevolezza. Perché il Berlusconismo non è stato solo un progetto politico: è stato un progetto antropologico. Ha ridefinito i parametri del desiderabile, ha riscritto le regole della visibilità, ha imposto un modello di successo fondato sulla furbizia, sull'apparenza, sulla capacità di piacere senza dire nulla. Ha costruito una televisione che non informa, ma intrattiene gli sciocchi; che non educa nessuno, ma distrae gli allocchi; che non eleva l'individuo, ma ottenebra le menti. E lo ha fatto con una tale pervasività da rendere difficile, oggi, distinguere ciò che è stato indotto da ciò che è stato scelto. E la nostra politica é la dimostrazione più plastica di quanto queste azioni hanno causato in noi, "poveri cittadini inermi" e gran coglioni. La televisione trash non è un genere: è diventata una pedagogia. Ha insegnato a milioni di italiani che il conflitto è spettacolo, che l'umiliazione è divertente, che la privacy è un ostacolo alla narrazione. Ha normalizzato la mercificazione del corpo, la ridicolizzazione dell'intelligenza, la glorificazione dell'ignoranza. Ha reso plausibile l'idea che il successo non dipenda dalla competenza, ma dalla capacità di stare in scena. E ha fatto tutto questo con una coerenza impressionante, con una strategia che non ha mai avuto bisogno di dichiararsi, perché era già ovunque. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una società che fatica a distinguere tra contenuto e contenitore, tra verità e spettacolo, tra denuncia e performance. L'abbiamo ribadito più e più volte...Una società che ha interiorizzato il linguaggio della televisione trash come lingua madre, che ha imparato a pensare per slogan, a giudicare per frame, a reagire per riflesso. Una società che oggi si scandalizza per Fabrizio Corona, ma che per trent'anni ha applaudito programmi che facevano esattamente ciò che lui fa — solo con più trucco, più luci, più copertura istituzionale, più potenza economica e mediatica. E allora sì, bisognerebbe piangere. Non per ciò che vediamo oggi, ma per ciò che abbiamo accettato e fagocitato ieri. Tanta di quella "merda" che per generazioni, a chi è cresciuto davanti a uno schermo non ha mai chiesto loro di pensare, ma solo di desiderare e di consumare forsennatamente. Bisognerebbe piangere per le intelligenze sacrificate sull'altare dell'audience. Per le parole svuotate, per le immagini saturate, per le coscienze addomesticate. Bisognerebbe piangere per il tempo perduto, per le occasioni mancate, per la cultura ridotta a format. Bisognerebbe piangere per aver confuso la libertà con la deregulation, la pluralità con il rumore, la democrazia con il talk show. Bisognerebbe piangere per aver creduto che tutto fosse intrattenimento, anche la nostra dignità. E finché non si piangerà per trent'anni di Berlusconismo — non per nostalgia, ma per consapevolezza, per la capacità di riconoscere ciò che quella stagione ha prodotto nella struttura profonda dell'immaginario collettivo — continueremo a rimanere disorientati, perché siamo stati educati a non distinguere più tra ciò che ci danneggia e ciò che ci distrae, tra ciò che ci impoverisce e ciò che ci diverte, tra ciò che ci riguarda e ciò che ci anestetizza. Continueremo a considerare la violenza come contenuto legittimo, perché la televisione trash ha insegnato per decenni che l'umiliazione è un linguaggio accettabile, che la sofferenza è un materiale narrativo, che la dignità è un elemento sacrificabile in nome dell'audience, e questo insegnamento si è sedimentato così profondamente da rendere indistinguibile il confine tra ciò che dovrebbe indignare e ciò che invece viene consumato come passatempo. E tutto questo accadrà finché non ci sarà la capacità collettiva di riconoscere che il vero danno non è ciò che vediamo oggi, ma ciò che abbiamo interiorizzato ieri; che il vero problema non è il singolo personaggio che espone, urla o monetizza, ma il sistema che lo ha generato e che ora subisce il contraccolpo delle sue stesse distorsioni. 

a*g






Nella storia della fotografia si incontrano molte posture: c'è chi usa l'obiettivo per registrare ciò che accade, chi lo impugna come strumento di critica, chi lo trasforma in un mezzo per rendere omaggio alla vitalità del mondo. Ma queste categorie, così nette sulla carta, nella pratica si intrecciano, si contaminano, si sfumano. È proprio in...