Un giorno, dall'altra parte del mare, una regista iraniana, Sepideh Farsi, scelse di tendere un filo sottile ma resistente fino a lei. Iniziò una corrispondenza su Zoom: una finestra aperta sulla vita quotidiana a Gaza, che durò un anno. Ogni chiamata era una piccola resistenza, una confessione, una dichiarazione d'amore verso una terra martoriata. Quelle videochiamate sono diventate il cuore di un film-documentario, "Put your soul on your hand and walk".
Solo due giorni fa era arrivata la notizia: il film avrebbe avuto la sua prima mondiale a Cannes, nella sezione Acid dedicata ai cineasti indipendenti. Nella seconda foto che Sepideh ha condiviso, Fatem sorrideva, incredula, felice come chi intravede per la prima volta uno spiraglio di giustizia in un mondo senza pace.
Era tutto pronto perché potesse andare a Cannes, camminare sul tappeto rosso non come una star, ma come un testimone. Fatem, però, aveva già promesso: "Tornerò subito a Gaza. È questo che l'occupazione vuole, che ce ne andiamo. Noi dobbiamo restare."
Non farà in tempo a mantenere quella promessa.
Il giorno dopo quella telefonata, un bombardamento ha raso al suolo la sua casa. Fatem è morta insieme a dieci membri della sua famiglia.
Non è stata una tragica fatalità, né un errore di calcolo. Era un attacco mirato. Perché il coraggio fa paura. Perché la verità fa più paura delle bombe.
Perché un solo scatto di Fatem — più di mille proclami — poteva mostrare al mondo ciò che chi bombarda cerca disperatamente di occultare: il volto crudele di chi annienta, di chi stermina, di chi teme il giudizio della storia.
Prima di morire, Fatem aveva lasciato parole che oggi suonano come un testamento.