
Dove finisce il cibo: anatomia culturale del disgusto
Parlare di cibo oggi significa parlare di identità, di etica, di estetica, di politica. Il cibo è diventato testo totale: territorio, memoria, storytelling, health washing, green washing, lifestyle. Lo celebriamo nelle fotografie, lo analizziamo nelle rubriche, lo ritualizziamo nei format televisivi. Eppure, questo stesso cibo, inevitabilmente, finisce altrove: nel gabinetto, nell'intimo fisiologico, nel luogo in cui la cultura si ritrae, la luce si spegne, il discorso si strozza. È come se la catena del senso si interrompesse sul più bello: raccontiamo l'entrata del cibo, ma censuriamo sistematicamente la sua uscita. Il transito si ferma nel punto in cui il "gusto" diventa "disgusto". È qui che si apre il vuoto teorico: una semiotica del gusto senza semiotica del disgusto è una scienza a metà, una narrazione monca, una filosofia mutilata proprio nel punto in cui il corpo reclama la sua verità più inaggirabile.

Quelle del cibo e del gusto sono sfere esplorate con vigore negli ultimi anni, in tutte le dimensioni che esse coinvolgono, o quasi. Fra queste infatti ne esiste una che pare sistemicamente elusa. È la dimensione terminale ma necessaria del cibo, quella in cui esso si trasforma naturalmente da meraviglioso testo nel piatto in massa fecale. Sulla cacca vige un tabù, eppure relegarla ai margini della semiosfera, negli anfratti del cattivo gusto, in un simbolico rimosso fognario, non impedisce che essa sia a tutti gli effetti prolifica produttrice senso, costituendosi come chiave comune che attraversa tutte le culture. La cacca è l'universale linguistico fondato sul disgusto, luogo di una simbologia retta sull'estesia del ripugnante, che parrebbe refrattaria a qualsiasi mise en langue. Eppure essa invece è sempre assai semiotizzata. Attraverso un percorso di testi, cinematografici e non solo, in questo saggio miriamo a reintrodurla nel dibattito semiotico, enfatizzando l'importanza di una semiotica del disgusto (complementare a quella del gusto), e ponendo le basi per lo sviluppo di una futura coprosemiotica generale. Il fecale è infatti un formidabile dispositivo semiotico troppo spesso sottostimato e taciuto, che dà conto di come le culture trattino quel senso che vorrebbero inesistente o celato nell'alveo innominabile del disgusto.
Bruno Surace
La parte rimossa del gusto: per una semiotica del fecale
La cacca è il grande rimosso che struttura la nostra cultura. Non scompare perché la ignoriamo: al contrario, più la respingiamo, più si carica di senso. È il segno di ciò che vogliamo cancellare dal campo visibile e nominabile, ma che ritorna ovunque sotto forma di metafora, insulto, comicità, scandalo, vergogna. Il lessico quotidiano ne è saturo: usiamo il fecale per dire il fallimento, il disprezzo, il brutto lavoro, la corruzione, lo spreco, l'osceno. Dire "è una merda" è un atto semiotico violento ma chiarissimo: non descriviamo più la materia organica, ma un giudizio di valore totale, definitivo, non negoziabile. Il fecale diventa grammatica dell'esclusione. Senza accorgercene, utilizziamo la cacca come principio classificatorio: ciò che espelliamo dal corpo diventa modello di ciò che espelliamo dalla comunità, dal gusto, dalla norma.
Il tabù che avvolge il fecale non è solo igienico o sanitario: è simbolico. L'evacuazione è uno dei pochi momenti in cui la cultura concede al corpo una solitudine quasi assoluta. Si chiude la porta, si abbassa la voce, si cancella l'odore con deodoranti aggressivi, si attiva il rumore dell'acqua come schermo sonoro. È un rito di occultamento. Non basta eliminare il rifiuto: va cancellata anche la sua traccia simbolica. L'architettura delle nostre case lo testimonia: il bagno è spesso il luogo meno raccontato, meno fotografato, meno esibito, e quando è mostrato lo si depura, lo si rende astratto, lucido, inodore. Questo sfondo materiale racconta una cosa semplice: la cultura riconosce al fecale un potere di disturbo così forte da tentare di neutralizzarlo all'origine, trasformando una funzione universale in un fatto privato, quasi indicibile.
Eppure, proprio perché rimosso, il fecale è una riserva enorme di significati. È un universale antropologico tanto quanto il mangiare, forse più radicale perché attraversa tutte le classi sociali, tutte le religioni, tutti i regimi politici. Nessuna cultura sfugge al problema semantico della cacca: che farne, come nominarla, come nasconderla, come usarla per disciplinare i corpi, in primis quelli dei bambini. L'educazione al vasino è una delle prime pratiche semiotiche della vita: impariamo a dare un posto, un tempo, un modo legittimo a ciò che "esce" da noi. Non è solo una questione di controllo sfinterico: è una pedagogia del senso. Il bambino impara che non tutto ciò che produce può stare ovunque, che esistono luoghi del lecito e dell'illecito, che il proprio corpo può "sbagliare" posto. Il disgusto, in questo quadro, non è un riflesso naturale ma una tecnologia culturale potentissima: attraverso il "che schifo" si regolano spazi, gesti, vicinanze e distanze.
Il senso che scartiamo: reintegrare il fecale nel discorso culturale
Una semiotica del disgusto, complementare a quella del gusto, deve partire da questa evidenza: il fecale non è solo scarto materiale, è dispositivo di selezione simbolica. Ciò che consideriamo disgustoso non è dato una volta per tutte; viene programmato culturalmente, modulato storicamente, negoziato socialmente. Quello che oggi è inaccettabile in tavola poteva essere cibo in un'altra epoca, o viceversa. Ma la cacca occupa una posizione particolare: rimane quasi ovunque segno di "troppo corpo", di eccesso di materia, di tracimazione della vita biologica sul piano culturale. È la prova che siamo fatti di carne, umori e decomposizione. Non stupisce allora che le religioni, le morali, le estetiche abbiano spesso costruito la loro nobiltà proprio su un distacco controllato dal fecale: più sei "elevato", più ti allontani simbolicamente dalla merda. Questo vale per il linguaggio, per i codici di comportamento, per la rappresentazione del potere. Il cinema e la letteratura hanno intercettato questa tensione in modi differenti, spesso attraversando il disgusto per colpire la nostra sensibilità politica. Pensa al cinema che usa l'atto fecale come violazione deliberata delle convenzioni: quando un film mostra la cacca, di solito non lo fa mai in modo neutro.
Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini, 1975)
È il riferimento inevitabile. La celebre "mangiata delle feci" non è pornografia del disgusto: è un dispositivo politico. Pasolini usa il fecale come metafora della consumazione del corpo da parte del potere, come degradazione programmata, come annullamento dell'individuo. Qui la cacca è linguaggio della dominazione. È uno shock calcolato, un attacco al buon gusto, un sabotaggio della distanza estetizzante. La cacca sullo schermo rompe la quarta parete non tanto visiva quanto emotiva: ci costringe a fare i conti con ciò che avevamo espulso dal nostro immaginario.
Pink Flamingos (John Waters, 1972)
Waters fa del fecale un'arma contro il buon gusto borghese. La scena finale — Divine che mangia un escremento di cane — è un gesto performativo, quasi dadaista: un attacco frontale alla cultura della rispettabilità. Qui il fecale è sabotaggio estetico.
Trainspotting (Danny Boyle, 1996)
La "toilet scene" non mostra la cacca in modo esplicito, ma la evoca come abisso simbolico: Renton che si immerge nel water è un'immersione nel degrado, nella dipendenza, nella perdita di sé. Il fecale diventa metafora visiva della dissoluzione del corpo e della volontà.
The Human Centipede (Tom Six, 2009)
Opera estrema e controversa, ma interessante sul piano semiotico: il fecale è usato come dispositivo di annientamento dell'identità, come riduzione dell'umano a puro transito organico. Non è un film "bello", ma è un caso limite utile per mostrare come il disgusto possa diventare architettura narrativa.
Swiss Army Man (Daniels, 2016)
Qui il fecale (e più in generale i fluidi corporei) è trattato in chiave poetica e surreale. La cacca diventa indice di vitalità, di presenza corporea, di ritorno all'umano. È un esempio prezioso perché mostra come il fecale possa essere riabilitato come segno.
Parasite (Bong Joon-ho, 2019)
Non mostra la cacca, ma la evoca come metafora sociale: l'acqua di fogna che invade la casa dei Kim è un ritorno del rimosso, un collasso delle gerarchie simboliche. È un caso perfetto per parlare di disgusto come linguaggio di classe.
The Great Beauty (Paolo Sorrentino, 2013)
La scena iniziale della turista giapponese che sviene davanti alla fontana dopo aver scattato una foto è seguita da un'immagine di Roma che alterna sacro e profano, bellezza e rifiuto. Non c'è fecale esplicito, ma il film lavora continuamente sul rimosso corporeo della città.
Jackass: The Movie (2002) e derivati
Qui il fecale è performatività del disgusto: un modo per testare i limiti della rappresentazione e del corpo. È utile come caso di studio per capire come il disgusto possa diventare intrattenimento ritualizzato.
Il fantasma della libertà (Luis Buñuel, 1974)
La celebre scena del "rovesciamento dei codici" — persone sedute su water attorno a un tavolo che conversano, mentre mangiano in privato — è una delle più brillanti riflessioni sul tabù fecale. Qui il fecale è critica sociale attraverso l'assurdo.
Mother! (Darren Aronofsky, 2017)
Non c'è cacca esplicita, ma il film è un continuo processo di espulsione, rigetto, decomposizione. È utile per discutere il fecale come struttura simbolica, non come immagine.
Lo stesso accade nei testi satirici, nei fumetti più irriverenti, nell'umorismo scatologico: il riso sul fecale è un modo per riavvicinare il mondo del basso, del corporeo, del non sublimato. È un ridere che sporca l'ideale, che ricorda che sotto il blazer, il tailleur, l'uniforme, il corpo continua a funzionare, a produrre scarto. Qui il fecale è un linguaggio del rovesciamento, un modo per far crollare l'aura del potere e riportare tutto alla materia.
François Rabelais – Gargantua e Pantagruele
Il modello originario del riso scatologico come forza vitalistica. Il corpo che mangia, espelle, trabocca è metafora di libertà, eversività, anti-ascetismo.
Jonathan Swift – I viaggi di Gulliver (soprattutto Brobdingnag)
Il corpo ingrandito diventa osceno, e il fecale è usato per smontare la presunta nobiltà dell'umano.
Geoffrey Chaucer – I racconti di Canterbury (il "Miller's Tale")
Il riso scatologico come arma contro la morale ipocrita.
Marquis de Sade
Non per la pornografia del disgusto, ma per l'uso del corpo come dispositivo politico che smaschera la violenza delle istituzioni.
South Park (Trey Parker & Matt Stone)
Non è solo televisione: è un corpus narrativo che ha fatto del fecale un linguaggio politico. Mr. Hankey è un caso di studio perfetto per la coprosemiotica.
Rat-Man (Leo Ortolani)
In Italia, uno degli esempi più intelligenti di uso del grottesco corporeo per smontare i codici del supereroe.
Una coprosemiotica generale – ovvero una semiotica che assuma il fecale come oggetto primario di analisi – non si limita a registrare le rappresentazioni della cacca, ma analizza come le culture la usano per parlare d'altro. Quando definiamo "di merda" una giornata, un film, un governo, non stiamo solo insultando: stiamo affermando che qualcosa è incontrollabile, nauseante, indegno di restare nello spazio comune.
La pubblicità e il design igienico raccontano un altro capitolo della stessa storia. Il marketing dei detergenti, dei profumi, dei sanitari, delle salviettine, costruisce una narrativa sofisticata della cancellazione del fecale. Il messaggio è costante: ciò che esce da noi va eliminato senza residui, senza odore, senza memoria. Dove il corpo è troppo presente, interviene il dispositivo tecnico che pulisce, igienizza, deodorizza, sbianca. Non vendiamo solo prodotti, vendiamo l'illusione di un corpo che "non fa la cacca", o che lo fa in maniera così astratta da non incidere sul reale. In questo senso, la cacca è anche un campo di battaglia economico: un enorme mercato gira attorno alla gestione del disgusto. Anche qui, il segno fecale opera in negativo: non lo si mostra, ma lo si evoca come minaccia implicita che giustifica l'acquisto, la pratica, il rituale di pulizia.
Il fecale diventa unità di misura del degrado. Quando invece lo si reintroduce in chiave comica (la gag, lo sketch, la barzelletta), si compie un gesto opposto: si abbassa la soglia del tragico, si neutralizza l'angoscia del corpo che tracima, si riconosce una fraternità nell'imbarazzo condiviso. Tutti fanno la cacca: questa banalità è insieme democratica e destabilizzante. È democratica perché livella; è destabilizzante perché mina le gerarchie simboliche. La coprosemiotica studia proprio queste oscillazioni tra esclusione e riconciliazione.

Sul piano politico, il linguaggio fecale ha un ruolo che sarebbe ingenuo sottovalutare. I discorsi d'odio fanno uso sistematico di metafore che assimilano interi gruppi a rifiuti, sporcizia, escrementi. È un processo di disumanizzazione che passa proprio dal disgusto: se l'altro "puzza", "contamina", "infetta", allora è legittimo escluderlo, confinarlo, eliminarlo. La cacca viene usata come codice per costruire frontiere morali. Ancora una volta, il fecale non riguarda solo il corpo: diventa tecnologia di potere, strumento retorico per naturalizzare la violenza, coprirla di una patina di "normale repulsione". Una coprosemiotica critica deve smontare questi meccanismi, mostrare come il disgusto venga fabbricato e indirizzato, come ciò che chiamiamo "innato" sia spesso l'esito di una lunga pedagogia del rifiuto.
È per questo che reintrodurre la cacca nel dibattito semiotico non è una provocazione gratuita, ma una necessità teorica. Significa riconoscere che il senso non abita solo nei piatti stellati, negli allestimenti museali, nei discorsi raffinati, ma anche nei rifiuti, nei gabinetti, nelle cloache, nei linguaggi più bassi e quotidiani. Una semiotica che voglia essere davvero generale deve scendere anche qui, dove il gusto cede il passo al disgusto. Solo così può capire come una cultura si racconta, non solo in ciò che mette in vetrina, ma anche in ciò che getta giù per lo scarico. La cacca è l'ombra inseparabile del nostro culto del cibo: più sublimo il piatto, più carico di sacralità il gesto del mangiare, più violento sarà il mio tentativo di espellere ciò che di quel gesto rimane.
Una coprosemiotica generale, allora, può diventare uno strumento didattico formidabile. Può insegnare a leggere i testi filmici che usano il disgusto per mettere in crisi lo spettatore. Può aiutare a interpretare i discorsi politici che ricorrono al vocabolario del rifiuto. Può offrire chiavi per la critica dei media che estetizzano il cibo e occultano il corpo. Può far emergere, nei percorsi educativi, quanto la gestione del fecale partecipi alla costruzione dell'identità, del pudore, della vergogna, del senso di appartenenza. Soprattutto, può restituire dignità teorica a ciò che non avrà mai dignità estetizzante, e proprio per questo è rivelatore: la cacca non è bella, non è fotogenica, ma è ineliminabile. Se il compito della semiotica è dare conto di come produciamo senso a partire da ciò che ci attraversa, allora ignorare il fecale significa tradire il proprio oggetto.
Alla fine, il punto è semplice e scomodo: ogni cultura, prima o poi, deve fare i conti con ciò che vorrebbe non esistesse. Il fecale è il laboratorio in cui questo conflitto si rende più concreto. È senso che brucia, che nausea, che imbarazza, ma proprio per questo rende visibili le linee di confine tra il dicibile e l'indicibile, tra ciò che accogliamo e ciò che espelliamo. Reintrodurlo al centro del discorso non è un vezzo provocatorio, è un atto di onestà teorica. Per capire davvero cosa una cultura considera "gusto", bisogna guardare senza distogliere lo sguardo ciò che essa definisce "disgusto". Solo allora una semiotica del cibo può diventare completa: quando accetta di seguire il percorso del senso fino al suo termine materiale, là dove il piatto finisce, simbolicamente e concretamente, in ciò che non vogliamo vedere ma che ci definisce più di quanto siamo disposti ad ammettere.
Parlare di cibo oggi significa parlare di identità, di etica, di estetica, di politica. Il cibo è diventato testo totale: territorio, memoria, storytelling, health washing, green washing, lifestyle. Lo celebriamo nelle fotografie, lo analizziamo nelle rubriche, lo ritualizziamo nei format televisivi. Eppure, questo stesso cibo, inevitabilmente,...
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