La bellezza che non vediamo: un invito a scavare oltre la superficie

21.12.2025


a Silvano Agosti
e alla vostra coscienza e libertà


Questo articolo ha le sue fondamenta su un pretesto; questo titolo: La scuola è una cazzata. Vedete il titolo, lo vedete? Ma se vi fermate alla superficie, se vi accontentate del primo sguardo, non vedrete mai la luce. La bellezza va scoperta, va dissepolta fino in fondo, va cercata, va scavata, va liberata dalla polvere che la nasconde. È lì, sempre, ostinata e silenziosa, dentro di noi. Dobbiamo solo avere il coraggio di riportarla alla vita.

Quando diciamo "Vedete il titolo, lo vedete", stiamo denunciando una condizione collettiva: l'abitudine a fermarsi alla soglia delle cose. La superficie è comoda, immediata, rassicurante. Ma è anche il luogo dove la verità si dissolve, dove la complessità viene ridotta a slogan, dove la bellezza si trasforma in un'ombra. Viviamo in un tempo che consuma immagini più velocemente di quanto riesca a comprenderle. Guardiamo, scorriamo, passiamo oltre. Eppure continuiamo a dire di "vedere". Ma vedere non è guardare: è un atto di responsabilità, un gesto etico prima ancora che estetico. È un esercizio di profondità. La bellezza autentica non è mai evidente. Non è un ornamento, non è un privilegio, non è un lusso. È un lavoro. Va cercata, dissepolta, liberata. È un atto di scavo interiore e culturale. Perché la bellezza non è fuori da noi: è dentro, ma sepolta sotto strati di paura, abitudine, distrazione, rumore.



Questo articolo ha le sue fondamenta su un pretesto, e il pretesto è un titolo: "La scuola è una cazzata". Lo leggete, lo vedete, e subito scatta il riflesso: giudicare, reagire, semplificare. È il destino di ogni titolo provocatorio in un'epoca che consuma parole come fossero involucri vuoti. Ma se vi fermate alla superficie, se vi accontentate del primo sguardo, non vedrete nulla. Non vedrete la domanda che contiene, la ferita che suggerisce, la possibilità a cui si apre e interroga. Il titolo è un'esca, non una conclusione. È un invito a sospendere l'automatismo del giudizio e a entrare in uno spazio più profondo, dove le parole non servono a scandalizzare ma a interrogare. Perché la verità non sta mai nella prima impressione, e la bellezza non si manifesta mai in ciò che è immediato. La bellezza va cercata, va dissepolta, va liberata dalla polvere che la ricopre. È un lavoro, non un colpo d'occhio, fuggitivo e fuggente.

Viviamo in un tempo che ha smarrito la capacità di scavare. Ci fermiamo al titolo, al post, alla frase estrapolata dal contesto, e crediamo di aver capito. Ma capire non è mai un gesto rapido. Capire richiede lentezza, richiede attenzione, richiede il coraggio di attraversare ciò che inizialmente ci disturba. La superficie è comoda, ma è anche il luogo in cui tutto si appiattisce: la complessità, la contraddizione, la vita stessa.

Per questo il titolo non è un insulto alla scuola, ma un invito a riconsiderarla. A chiederci che cosa sia diventata, che cosa dovrebbe essere, che cosa abbiamo smesso di pretendere da essa. È un modo per costringerci a guardare oltre l'istituzione e dentro l'esperienza, oltre il programma e dentro la persona, oltre la struttura e dentro la relazione educativa.

La bellezza, quella vera, non è mai evidente. È ostinata, silenziosa, nascosta. Vive sotto strati di abitudine, paura, conformismo. E non riguarda solo l'arte o la natura: riguarda anche la scuola, il modo in cui impariamo, il modo in cui cresciamo. Riguarda la possibilità di restituire all'educazione la sua dimensione più profonda: non la trasmissione di nozioni, ma la liberazione di ciò che ciascuno porta dentro.

Dobbiamo solo avere il coraggio di riportarla alla vita. E per farlo, a volte, serve un titolo che ci costringa a fermarci, a indignarci, a pensare. Serve un pretesto che apra una breccia. Serve una frase che ci obblighi a guardare dove non vogliamo guardare.

Abel Gropius


La superficie come prigione

La superficie è il luogo dell'interpretazione rapida, del giudizio istantaneo, della reazione emotiva non filtrata. È il territorio dove si costruiscono le semplificazioni, dove si perde la complessità del reale. Restare in superficie significa rinunciare alla verità delle cose, alla loro densità, alla loro storia.

È come leggere solo il titolo di un libro e credere di averne compreso il senso. È come guardare un volto e non vedere la vita che lo ha modellato. È come osservare un dolore e ridurlo a un fatto di cronaca.

La bellezza come atto di resistenza

Scavare nella bellezza è un gesto politico e spirituale. Significa opporsi alla velocità che ci vuole superficiali, alla distrazione che ci vuole passivi, alla paura che ci vuole ciechi.

La bellezza non è un rifugio: è una forza. È ciò che ci permette di restare umani quando tutto intorno sembra disumanizzarsi. È ciò che ci ricorda che ogni vita ha un valore irriducibile, che ogni storia merita ascolto, che ogni dolore merita dignità.

La bellezza è un atto di giustizia.

La profondità come pratica quotidiana

Non si tratta di un esercizio astratto. È un allenamento quotidiano:

  • Guardare davvero, senza scappare.

  • Ascoltare fino in fondo, senza interrompere.

  • Domandare, invece di giudicare.

  • Riconoscere, invece di consumare.

  • Restare, invece di voltarsi altrove.

La profondità non è un talento: è una scelta. Una scelta che ci restituisce a noi stessi.

La luce che emerge dal buio

Quando diciamo che la bellezza è dentro di noi, non stiamo facendo un'affermazione consolatoria. Stiamo affermando un principio filosofico: la luce non è qualcosa che si trova, è qualcosa che si libera. È già presente, ma imprigionata. È già viva, ma soffocata.

Scoprirla significa accettare di attraversare le nostre ombre, di guardare ciò che ci fa paura, di riconoscere ciò che abbiamo nascosto. La bellezza non è mai un punto di partenza: è un punto di arrivo.

Un invito al coraggio

Questo non è un discorso estetico. È un invito al coraggio. A non fermarsi al titolo. A non accontentarsi della superficie. A non rinunciare alla profondità che ci rende umani.

La bellezza è sempre lì, ostinata, silenziosa, sepolta. Aspetta solo che qualcuno abbia il coraggio di riportarla alla luce.


Tira fuori il bambino che c'è in te! [HCS for Isla Media]
Tira fuori il bambino che c'è in te! [HCS for Isla Media]

Tira fuori il bambino che c'è in te: quello che non ha paura di sporcarsi le mani per cercare la verità, quello che scava nel buio per liberare la luce, quello che non si accontenta di guardare, ma vuole capire. Questa immagine non ritrae un volto: ritrae un gesto. Il gesto di chi ha il coraggio di andare oltre, di chi non si ferma al titolo, di chi sa che la bellezza non si mostra ma si scopre pian piano. È il bambino che non ha ancora imparato a mentire, che non ha nessuna malizia, che non ha ancora ceduto alla fretta, alle lusinghe del mondo, che è sacro, che sa che ogni cosa importante richiede tempo, ascolto, profondità. E forse, è proprio da lì che si comincia a vivere davvero. Tu scava e trova quel bimbo!

A*G


[IN ALTRE PAROLE]


D'amore si vive: un esercizio di ascolto e di comprensione della complessità umana

D'amore si vive di Silvano Agosti rappresenta un esempio particolarmente efficace di come il cinema possa diventare uno strumento di indagine antropologica e, allo stesso tempo, un dispositivo pedagogico capace di mostrare quanto sia necessario superare la lettura superficiale dei comportamenti umani per accedere a una comprensione più ampia e articolata delle dinamiche affettive, relazionali e sociali che definiscono l'esperienza individuale.

D'amore si vive" è un documentario del 1984 diretto da Silvano Agosti, che esplora temi di amore, tenerezza e sessualità attraverso interviste intime con vari individui

Il film si struttura come una serie di testimonianze dirette, raccolte attraverso interviste che non seguono un percorso narrativo tradizionale, ma che si dispongono come frammenti autonomi, ciascuno portatore di una specifica prospettiva sull'amore, sulla sessualità, sulla tenerezza e sulle difficoltà che emergono quando questi temi vengono affrontati senza filtri e senza la mediazione rassicurante delle convenzioni culturali. Agosti sceglie di non intervenire con interpretazioni, giudizi o commenti, e questa sospensione intenzionale permette allo spettatore di confrontarsi con la complessità delle storie ascoltate, assumendosi la responsabilità di elaborarle in modo critico.

Uno degli aspetti più rilevanti dell'opera è la capacità di mostrare come l'amore non sia un concetto unitario, ma un insieme di pratiche, vissuti e rappresentazioni che variano in base alle condizioni sociali, alle esperienze personali e alle forme di vulnerabilità che ciascun individuo porta con sé. Attraverso le voci di una madre, di un bambino, di una prostituta, di una persona trans e di altri soggetti che raramente trovano spazio nei discorsi pubblici, il film evidenzia come la dimensione affettiva sia sempre intrecciata a questioni di identità, di riconoscimento e di dignità, e come ogni storia richieda un ascolto attento per essere compresa nella sua interezza.

L'approccio adottato da Silvano Agosti può essere interpretato come un invito a sviluppare una competenza fondamentale: la capacità di ascoltare senza pregiudizi, di accogliere la complessità senza ridurla a categorie semplificate, e di riconoscere che la verità delle persone non emerge mai da ciò che appare immediatamente, ma da ciò che si rivela quando si crea uno spazio sicuro e non giudicante. In questo senso, il film assume un valore didattico, perché mostra come l'atto di ascoltare possa diventare un esercizio di responsabilità etica e di maturazione intellettuale.

La scelta di mantenere un linguaggio diretto, privo di artifici retorici, e di lasciare che siano le persone intervistate a definire il ritmo e il contenuto del discorso, permette allo spettatore di confrontarsi con la realtà senza mediazioni estetizzanti. Questo approccio, pur nella sua apparente semplicità, richiede un impegno attivo: invita a sospendere l'impulso a interpretare immediatamente ciò che si ascolta e a riconoscere che ogni testimonianza contiene elementi che sfidano le nostre categorie abituali.

In definitiva, D'amore si vive può essere considerato un esercizio di profondità, un esempio concreto di come sia possibile superare la tendenza a fermarsi alla superficie delle cose e imparare a vedere ciò che normalmente rimane nascosto. Il film dimostra che la bellezza, la verità e la complessità dell'esperienza umana non emergono attraverso l'immediatezza, ma attraverso un processo di attenzione, di ascolto e di disponibilità a mettere in discussione le proprie certezze. È un'opera che non offre risposte, ma che insegna a formulare domande più consapevoli, e che invita a considerare l'amore non come un concetto astratto, ma come una realtà concreta che richiede cura, comprensione e responsabilità.



Descrizione del Film

"D'amore si vive" è un film documentario [qui l'integrale] che si distingue per la sua struttura unica, composta da sette capitoli che presentano interviste a diverse persone, ognuna delle quali condivide le proprie esperienze e riflessioni sull'amore e la sessualità. Il film è stato realizzato a Parma nell'arco di due anni e si basa su un totale di quarantasei interviste, da cui Agosti ne ha selezionato sette per la loro rappresentatività e impatto emotivo.

Temi Principali

Il film affronta temi complessi e spesso delicati, come la tenerezza, la sensualità e le difficoltà relazionali. Le interviste sono condotte in modo diretto e senza filtri, permettendo ai soggetti di esprimere le loro verità più intime. Tra i protagonisti ci sono una madre, una prostituta, un bambino e una transessuale, ognuno dei quali offre una prospettiva unica sull'amore e le sue sfide.

Ricezione e Critica

All'epoca della sua uscita, "D'amore si vive" non fu accolto con grande favore dalla critica, venendo talvolta etichettato come "pornografico" a causa della sua rappresentazione cruda e sincera della sessualità. Tuttavia, il film è stato anche visto come un'importante ricerca sociologica e un'opera di cinema indipendente che sfida le convenzioni.

"D'amore si vive" rimane un'opera significativa nel panorama del cinema documentario italiano, offrendo uno sguardo profondo e spesso inquietante sulle molteplici sfaccettature dell'amore e delle relazioni umane. La sua capacità di affrontare temi tabù con sincerità e vulnerabilità continua a risuonare con il pubblico contemporaneo.



Silvano Agosti: un autore che interroga l'umano

Parlare di Silvano Agosti significa confrontarsi con una figura che ha scelto, per tutta la vita, di collocarsi ai margini del sistema culturale pur rimanendo al centro di una questione fondamentale: che cosa significa essere umani in un mondo che tende a ridurre l'individuo a funzione, ruolo, ingranaggio. La sua opera, che attraversa cinema, letteratura, montaggio, pedagogia e riflessione filosofica, è un tentativo costante di restituire dignità a ciò che la società tende a comprimere o a ignorare. Silvano Agosti non è un autore che costruisce mondi immaginari: è un autore che scava nel reale, che lo osserva con una lente radicale, che cerca nelle pieghe dell'esistenza quotidiana quei frammenti di verità che sfuggono allo sguardo distratto.

La sua formazione, segnata da studi rigorosi e da un lungo periodo di apprendistato errante, gli ha permesso di sviluppare una sensibilità che unisce tecnica e intuizione, disciplina e libertà. Il suo modo di fare cinema non è mai stato subordinato alle logiche produttive o alle aspettative del mercato; al contrario, ha sempre difeso un'idea di arte come spazio di ricerca, come luogo in cui l'autore deve assumersi la responsabilità di guardare ciò che gli altri evitano. In questo senso, Silvano Agosti appartiene a quella tradizione di cineasti che considerano la macchina da presa non come uno strumento di intrattenimento, ma come un dispositivo etico.

Uno dei tratti distintivi del suo lavoro è la centralità dell'ascolto. Silvano Agosti non impone mai una narrazione, non costruisce personaggi, non dirige le persone verso un ruolo prestabilito. Preferisce creare le condizioni perché la verità emerga da sola, attraverso la parola, il silenzio, la fragilità. Questo approccio è evidente soprattutto nelle sue opere documentarie, dove la scelta di lasciare spazio alle testimonianze dirette diventa un atto politico: significa riconoscere che ogni individuo possiede una storia degna di essere ascoltata, che la complessità dell'esperienza umana non può essere ridotta a categorie rigide, che la verità non è mai univoca ma plurale.

Il suo film più noto, D'amore si vive, è un esempio emblematico di questa postura. Agosti non si limita a raccogliere interviste: costruisce un ambiente in cui le persone possono parlare senza paura di essere giudicate, in cui la loro voce non viene filtrata o interpretata, in cui la loro vulnerabilità diventa una forma di conoscenza. Il film mostra come l'amore, la sessualità, la tenerezza e il desiderio non siano concetti astratti, ma realtà vissute che assumono forme diverse a seconda delle condizioni sociali, delle esperienze personali e delle ferite che ciascuno porta con sé. La forza dell'opera non risiede nella provocazione, ma nella semplicità con cui permette alla complessità di emergere.

Valerio Agosti ha sempre rifiutato la logica della semplificazione. Nei suoi scritti, spesso costruiti come brevi meditazioni o come riflessioni aforistiche, insiste sulla necessità di recuperare una dimensione umana che la società contemporanea tende a soffocare. 

Critica la scuola quando diventa addestramento, critica il lavoro quando diventa alienazione, critica la politica quando perde il contatto con la vita reale delle persone. Ma non lo fa con spirito distruttivo: lo fa per proporre un'alternativa, per ricordare che esiste un modo diverso di abitare il mondo, più lento, più attento, più rispettoso della dignità individuale.

Il suo pensiero ruota attorno a un'idea semplice e radicale: ogni essere umano è un universo irripetibile, e la società dovrebbe essere costruita in modo da permettere a ciascuno di esprimere la propria unicità. Questa convinzione attraversa tutta la sua opera, dal cinema alla letteratura, e si traduce in una costante difesa della libertà interiore. Agosti non invita a ribellarsi in modo rumoroso, ma a recuperare la capacità di guardare, di ascoltare, di sentire. La sua è una rivoluzione silenziosa, fondata sulla consapevolezza che la trasformazione più autentica avviene dentro l'individuo prima che nelle strutture esterne.

Anche quando affronta temi sociali o politici, Agosti mantiene sempre un approccio umanistico. Non si interessa alle ideologie, ma alle persone; non si concentra sulle teorie, ma sulle vite concrete. Questo lo rende un autore difficile da classificare, perché sfugge alle categorie tradizionali. Non è un regista "di denuncia", non è un intellettuale "militante", non è un narratore "realista": è, piuttosto, un osservatore radicale dell'umano, un artigiano della verità, un cercatore di bellezza nascosta.

Oggi, il suo lavoro continua a esercitare un'influenza sotterranea ma persistente. Non appartiene al mainstream, non cerca visibilità, non si adegua alle mode culturali. Eppure, chi entra in contatto con la sua opera ne esce trasformato, perché Silvano Agosti non offre risposte, ma domande; non propone soluzioni, ma prospettive; non costruisce certezze, ma apre spazi di riflessione. La sua voce rimane una delle più originali e necessarie del panorama culturale italiano, proprio perché invita a fare ciò che la società contemporanea tende a scoraggiare: fermarsi, ascoltare, guardare davvero.

In definitiva, parlare di Silvano Agosti significa parlare di un autore che ha dedicato la vita a difendere la complessità dell'essere umano. La sua opera è un invito a non accontentarsi della superficie, a non ridurre la realtà a ciò che appare, a non rinunciare alla profondità. È un richiamo alla responsabilità di vedere, di comprendere, di custodire la bellezza fragile e nascosta che abita ogni persona. È, in fondo, un esercizio di umanità.


[A PROPOSITO DI]


Forse è questo che dovremmo ricordare degli anni '80, al di là delle nostalgie facili e delle caricature pop: non erano un paradiso perduto, e nemmeno quell'inferno patinato che oggi ci piace raccontare. Erano un tempo contraddittorio, spesso mediocre, a tratti persino brutale. Ma dentro quella mediocrità sopravviveva ancora una forma di coraggio che oggi fatichiamo a riconoscere: il coraggio di guardare le persone negli occhi, di ascoltare le loro storie senza filtri, di accettare che la realtà fosse scomoda, imperfetta, non addomesticabile.

D'amore si vive appartiene a quel coraggio. Non è un film "bello" nel senso in cui oggi usiamo la parola; è un film necessario. È un documento che non si limita a registrare delle voci, ma ci ricorda che quelle voci esistono ancora, anche se non le sentiamo più. Il bambino che parla d'amore come nessun adulto saprebbe fare, la donna che porta sul corpo il peso di una vita intera, la madre che si scopre vuota nel momento in cui dovrebbe essere piena, la persona trans che conosce la solitudine come un mestiere: sono tutte figure che non appartengono agli anni '80, ma alla nostra incapacità di ascoltare.

E allora la domanda non è come fossero quegli anni, ma come siamo diventati noi. Perché se oggi un film così non lo si potrebbe più girare, non è per prudenza o per decoro: è perché abbiamo smesso di voler vedere. Abbiamo sostituito la realtà con la sua versione più comoda, più rapida, più vendibile. Abbiamo trasformato le storie vere in storytelling, la complessità in contenuto, la fragilità in imbarazzo.

Valerio Agosti, con i suoi mezzi minimi e la sua ostinazione quasi artigianale, ci ricorda che l'umano non è mai spettacolo, ma presenza. Che la verità non si costruisce, si accoglie. Che la bellezza non si mostra, si scopre. E che ogni epoca, anche la più disordinata, può produrre qualcosa che resta, se qualcuno ha il coraggio di guardare dove gli altri distolgono lo sguardo.

Gli anni '80 non erano un'età dell'oro. Ma dentro quella "mezza schifezza" c'era ancora un cinema che non aveva paura di essere vivo. E forse, oggi, la cosa più rivoluzionaria che possiamo fare è tornare a quella vitalità: non per nostalgia, ma per necessità. Perché d'amore si vive, sì, ma solo se si ha ancora il coraggio di ascoltare.



Ci sono verità che la scienza, pur con tutta la sua potenza, non ha ancora saputo misurare. Verità che non si lasciano rinchiudere in formule, né ridurre a esperimenti di laboratorio. Una di queste verità è l'amore. Non un sentimento fragile e passeggero, ma una forza universale, capace di illuminare, attrarre, trasformare. Una forza che, se solo...