L’illusione delle parole e la fine della fiducia nell’uomo
L'EDITORIALE
di Abel Gropius
Non sarebbe cambiato molto. Che si fosse scelto Leone, Zuppi o Pizzaballa, la sostanza non avrebbe subito scosse. Le parole, se non incarnate da azioni concrete, restano soltanto parole: suoni che si disperdono nell'aria, come fumo d'incenso che profuma per un istante e poi svanisce. È questa la tragedia della nostra epoca: la retorica ha divorato la realtà.
Viviamo di discorsi, di dichiarazioni, di proclami. L'uomo moderno è diventato un animale verbale, che confonde la potenza del dire con la forza del fare. Ma il linguaggio, senza azione, non è che un guscio vuoto, un'eco sterile che si ripete in navate ormai vuote di fede, di coraggio, di coerenza. E noi, spettatori stanchi, non possiamo più fingere di crederci.
Ho smesso di credere nell'uomo, non per cinismo gratuito, ma perché la prova è sotto gli occhi di tutti. Le grandi figure, religiose o politiche, non incarnano più un orizzonte: lo promettono, lo descrivono, lo recitano. Ma non lo realizzano. L'uomo, in questo senso, si è rivelato fragile fino all'impotenza. Non riesce a tenere fede a se stesso, non sa dare carne alle proprie visioni, e così condanna le sue stesse parole a dissolversi.
La vera crisi non è economica, né geopolitica: è ontologica. È la frattura insanabile tra linguaggio e vita, tra il dire e l'essere. Quando questa distanza diventa incolmabile, non resta che il disincanto. Non resta che la consapevolezza amara che i discorsi dell'uomo non cambiano più nulla.
Forse, allora, l'unica via d'uscita è smettere di aspettare "salvatori in parola" e riconoscere che il silenzio, a volte, pesa più di mille proclami. Forse è lì, nel vuoto lasciato dalle parole disattese, che si nasconde la possibilità di un gesto autentico. Non so se accadrà. Ma fino ad allora, io non credo più nell'uomo.

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