
Kike Arnal: lo sguardo che restituisce dignità al mondo
Un fotografo che non si nasconde dietro la macchina
Kike Arnal nasce come documentarista, ma la sua pratica supera da tempo i confini del reportage tradizionale. La sua formazione e la sua esperienza — oltre vent'anni di lavoro tra editoriale, commerciale, etnografico e istituzionale — gli hanno permesso di sviluppare un linguaggio visivo che non è mai puramente descrittivo. Ogni immagine è un incontro. Ogni incontro è un patto con l'umanità. Il suo lavoro è apparso su testate come The New York Times e National Geographic, è stato esposto alle Nazioni Unite e in numerosi spazi internazionali. Ma ciò che colpisce non è il curriculum: è la coerenza etica che attraversa ogni progetto.
La dignità come principio narrativo
Uno dei tratti più riconoscibili del suo sguardo è l'assenza di sensazionalismo. Kike Arnal non usa la sofferenza come spettacolo, né la marginalità come ornamento. Lo si vede con particolare chiarezza nei suoi lavori dedicati alle comunità LGBTQ+ e, in particolare, alla comunità trans della Bay Area di San Francisco. In queste immagini non c'è mai l'ombra del voyeurismo. Non c'è la tentazione di "spiegare" l'altro. C'è, invece, un gesto di restituzione: restituire complessità, restituire presenza, restituire umanità. La fotografia diventa così un dispositivo di ascolto. Un modo per dire: io ti vedo, e ti vedo nella tua interezza.
Tra denuncia e celebrazione: un equilibrio raro
Molti dei suoi progetti affrontano temi sociali e ambientali: disuguaglianze, diritti umani, trasformazioni urbane, identità culturali. Ma Kike Arnal non è un fotografo "militante" nel senso più rigido del termine. La sua forza sta nel rifiuto della retorica. Non cerca il colpo di scena. Non cerca la lacrima facile. Non cerca l'eroe né la vittima. Cerca, piuttosto, quella trama invisibile che lega le persone ai loro contesti: i gesti quotidiani, le fragilità, le forme di resistenza, le micro‑comunità che si formano ai margini. È un lavoro che richiede tempo, immersione, fiducia. E Arnal sembra avere una capacità rara di entrare nei mondi altrui senza forzarli, senza colonizzarli, senza imporre un punto di vista.
Il libro come spazio di profondità
Kike Arnal ha pubblicato diversi libri fotografici, tutti caratterizzati da un approccio quasi antropologico. Il libro, per lui, non è un contenitore: è un luogo. Un luogo in cui le immagini possono respirare, dialogare, contraddirsi, costruire un discorso che va oltre la singola fotografia. La sua pratica editoriale è un'estensione naturale della sua etica: niente è lasciato al caso, niente è decorativo. Ogni sequenza è un percorso. Ogni percorso è un invito a rallentare.
Empatia come metodo, complessità come destino
Forse la parola che meglio definisce il lavoro di Kike Arnal è empatia. Non un'empatia sentimentale, ma un'empatia strutturale: la capacità di riconoscere l'altro come soggetto, non come oggetto; come interlocutore, non come tema. È un approccio che sfida la velocità del nostro tempo, la superficialità delle narrazioni mediatiche, la tendenza a ridurre tutto a slogan. Arnal, invece, costruisce storie che non si chiudono, che non si risolvono, che non pretendono di dire l'ultima parola. Il suo lavoro ci ricorda che la fotografia può ancora essere un atto politico nel senso più alto: un atto di responsabilità verso il reale.
Un invito a guardare meglio
Guardare le fotografie di Kike Arnal significa essere chiamati a un compito: non consumare l'immagine, ma attraversarla. Non giudicare, ma comprendere. Non cercare la conferma dei propri pregiudizi, ma lasciarsi sorprendere dalla complessità del mondo. In un'epoca in cui l'immagine è spesso ridotta a intrattenimento o propaganda, Arnal ci restituisce la possibilità di uno sguardo più lento, più giusto, più umano. E forse è proprio questo il suo contributo più prezioso: ricordarci che vedere è un atto morale.
- The New Aztecs
- River Travelers
- The Wayuu
Kike Arnal ha sempre trattato il libro fotografico come un organismo vivente, non come un semplice contenitore. Nei suoi progetti editoriali si percepisce una sorta di postura antropologica: non nel senso accademico del termine, ma come disponibilità a lasciar emergere le relazioni, le tensioni, le contraddizioni che abitano le vite che fotografa. Il libro diventa così un luogo in cui queste presenze possono disporsi, respirare, entrare in dialogo tra loro senza essere costrette in una narrazione lineare o in un'estetica compiacente.
Per Arnal la sequenza non è mai un esercizio di stile. È un gesto etico. Ogni immagine viene scelta e collocata non per "funzionare" visivamente, ma per contribuire a un discorso più ampio, che non si esaurisce nella singola fotografia. Le pagine non sono pensate per impressionare, ma per accompagnare: invitano chi guarda a rallentare, a sostare, a lasciarsi attraversare da ciò che vede invece di consumarlo rapidamente.
Questa cura nella costruzione del libro riflette la sua pratica sul campo. Arnal non fotografa per accumulare materiale, ma per comprendere. E il libro è il luogo in cui questa comprensione prende forma, dove l'esperienza vissuta si trasforma in un percorso condivisibile. Non c'è nulla di decorativo, nulla di superfluo: ogni scelta — dal ritmo delle immagini alla loro relazione con il bianco della pagina — risponde a un principio di responsabilità verso i soggetti ritratti e verso chi sfoglierà il volume.
In questo senso, i suoi libri non sono mai "prodotti editoriali": sono spazi di relazione. Spazi in cui l'immagine non viene consumata, ma abitata. Spazi in cui la complessità non viene semplificata, ma resa leggibile. Spazi in cui il tempo della fotografia si dilata e diventa tempo di pensiero.
E forse è proprio qui che si riconosce la cifra più profonda del suo lavoro: nella capacità di trasformare il libro in un'esperienza di incontro, un luogo in cui la fotografia non illustra, non spiega, non persuade, ma accompagna chi guarda verso un modo più attento, più lento, più giusto di stare di fronte all'altro.
Libri di Kike Arnal
In the Shadow of Power (2010)
Un'indagine visiva sulle disuguaglianze sociali a Washington D.C.Revealing Mexico (2010)
Un ritratto complesso e non stereotipato del Messico contemporaneo.Bordertowns (2015)
Un lavoro sulle città di confine tra Stati Uniti e Messico, tra identità, tensioni e quotidianità.Voladores (2016)
Un libro dedicato alla tradizione dei Voladores de Papantla, tra ritualità, rischio e memoria culturale.
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