Nietzsche, Foucault e la solitudine del linguaggio

19.08.2025

La riflessione filosofica sul linguaggio, fino all'Ottocento, si era spesso mantenuta entro i confini della logica e della rappresentazione. Il linguaggio era concepito come uno strumento di comunicazione, un mezzo trasparente che permetteva al pensiero di manifestarsi e di organizzarsi. Tuttavia, con Nietzsche, si compie una svolta radicale: il linguaggio non è più visto come semplice veicolo del pensiero, bensì come forza autonoma, come luogo di disgregazione e di rivelazione al tempo stesso. Michel Foucault, in Le parole e le cose, riconosce a Nietzsche il merito di aver inaugurato questa consapevolezza: egli è il primo a portare la filosofia a interrogarsi non solo sul contenuto del linguaggio, ma sulla sua stessa condizione, sulla sua fragilità, sulla sua capacità di creare e dissolvere significati.


Questo articolo nasce da una necessità: pensare il linguaggio non come veicolo del pensiero, ma come il luogo stesso in cui il pensiero si smarrisce, si reinventa, si apre alla finitudine. Non cercheremo verità ultime. Cercheremo vibrazioni, rotture, possibilità. Perché è nella solitudine del linguaggio che si apre il gioco infinito dei segni, e forse, anche il nostro modo più autentico di pensare. 



L'impossibilità classica e la frattura nietzscheana

La filosofia classica, osserva Foucault, ha sempre guardato al linguaggio con "attenzione laterale", trattandolo come accessorio, come superficie che riflette fedelmente la realtà o il pensiero. Nietzsche rompe questo paradigma: nella sua riflessione, il linguaggio non è trasparente né neutro. È invece frammento, vibrazione, forza creativa e distruttiva.

Qui si apre la domanda nietzscheana fondamentale: chi parla? Non esiste un soggetto pienamente sovrano che domini il linguaggio e lo utilizzi a piacimento. Piuttosto, il linguaggio stesso, nella sua energia vitale e nella sua opacità, parla attraverso il soggetto. Mallarmé risponde: ciò che parla è "la parola stessa, nella sua solitudine, nella sua vibrazione fragile, nel suo nulla". In questo riconoscimento del linguaggio come realtà autonoma, si compie il passaggio dal pensiero rappresentativo alla coscienza del linguaggio come evento.

Le opere giovanili e la dottrina del linguaggio

Due scritti giovanili di Nietzsche sono centrali in questo percorso.

  1. Sul pathos della verità (1872) – In questo testo, Nietzsche lega la verità al linguaggio non come corrispondenza tra parole e cose, ma come manifestazione tragica e passionale. La verità non è proprietà stabile, ma atto drammatico, creazione e distruzione continua di sensi.

  2. Su verità e menzogna in senso extramorale (1873) – Qui Nietzsche svela l'origine illusoria e convenzionale del linguaggio. I concetti non sono che metafore fossilizzate, segni che hanno perduto il legame con l'esperienza originaria. Parlare di "verità" significa allora dimenticare il carattere arbitrario delle parole, fingere che esse possano corrispondere stabilmente a un reale che, in sé, sfugge.

In entrambi i testi emerge un'idea rivoluzionaria: il linguaggio non è uno specchio del mondo, ma una costruzione fragile e sempre revocabile. È proprio questa fragilità a renderlo vitale, creativo, capace di mutamento.

Dal linguaggio alla soggettività

Se il linguaggio non è strumento ma forza autonoma, allora anche il soggetto non è padrone, ma effetto. La domanda "chi parla?" non trova risposta nel soggetto trascendentale, come voleva la tradizione cartesiana e kantiana, ma nel linguaggio stesso. Ciò che noi chiamiamo "io" è una superficie di iscrizione, un punto di coagulo momentaneo del gioco linguistico.

Nietzsche anticipa qui un tratto che sarà decisivo nella filosofia del Novecento: l'idea che il linguaggio preceda il soggetto, che l'uomo sia "pastore dell'essere" (Heidegger) o "effetto del discorso" (Lacan). Foucault riprende questa linea, mostrando come il linguaggio diventi campo di forze, archivio, sistema di enunciati che costruiscono e decostruiscono l'identità dei soggetti.

La solitudine del linguaggio

Nietzsche e Mallarmé ci conducono verso una visione radicale: il linguaggio è solitario. Non vi è un fondamento ultimo che lo garantisca; non vi è un soggetto che lo domini. Ciò che resta è la sua fragile vibrazione, la sua capacità di dire e disfare, di creare mondi e di lasciarli dissolvere.

Foucault riconosce qui la grandezza di Nietzsche: avere mostrato che la filosofia non può più limitarsi a considerare il linguaggio come un mezzo, ma deve farne il proprio campo di interrogazione. È in questa solitudine del linguaggio che nasce un nuovo modo di pensare: non più ancorato alla ricerca di una verità assoluta, ma aperto all'instabilità, alla finitudine, al gioco incessante dei segni.


Questi assunti qui ragionati ed elaborati non sono stati realizzati per confermare certezze, ma per attraversare il deserto delle evidenze. In questo spazio critico, ci accompagna una triade inquieta: Nietzsche, Mallarmé, Foucault. Pensatori che hanno avuto il coraggio di spogliare il linguaggio della sua presunta trasparenza, di mostrarne la vertigine, la solitudine, la potenza creativa e distruttiva.

Nietzsche ci ha insegnato che dietro ogni parola non vi è un fondamento, ma un abisso. Mallarmé ha fatto del silenzio e della sospensione il cuore pulsante della poesia. Foucault ha riconosciuto che la filosofia, se vuole ancora avere voce, deve interrogare il linguaggio non come strumento, ma come enigma.


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