Il dio cervo e i nomadi delle renne: un canto alla coesistenza

22.09.2025

Nel cuore pulsante della foresta, dove il silenzio è sacro e ogni foglia racconta una storia, cammina il dio cervo. Non è solo una creatura mitica, ma l'incarnazione di un principio eterno: la vita e la morte come due volti dello stesso respiro. Hayao Miyazaki, con *La principessa Mononoke*, ci ha donato una visione che non è solo poetica, ma profondamente filosofica: la natura non è da conquistare, ma da comprendere. Non è un oggetto, ma un soggetto. Non è una risorsa, ma una relazione. 


Nel nord della Mongolia, i Tsaatan lo sanno da sempre. Vivono con le renne, non accanto a loro. Le renne non sono animali da allevare, ma spiriti da onorare. La taiga non è un luogo da attraversare, ma una madre da ascoltare. Ogni gesto quotidiano – accendere il fuoco, mungere, spostarsi – è parte di un rituale che riconosce l'interdipendenza. Come il dio cervo, anche i Tsaatan incarnano l'equilibrio: non dominano, ma danzano con la natura.

Due mondi, una stessa verità

Nel film, il dio cervo cammina su fiori che sbocciano e appassiscono al suo passaggio. È bellezza e terrore, creazione e dissoluzione. Quando viene ucciso, la foresta muore. Quando viene liberato, la vita rifiorisce. È un monito: chi cerca di controllare la natura, la distrugge. Chi la serve, la rinnova. Allo stesso modo, i Tsaatan non costruiscono città, non scavano miniere, non impongono confini. Vivono in tende che si spostano, in ritmi che seguono le stagioni. La loro cultura è orale, tramandata come vento tra le betulle. Ogni bambino che ascolta una storia attorno al fuoco riceve un sapere antico, non scritto ma inciso nel cuore.

E noi? Dove siamo in questa narrazione?

Abbiamo costruito grattacieli, reti digitali, economie globali. Ma abbiamo dimenticato il linguaggio degli alberi, il respiro della terra, il silenzio che precede la neve. Abbiamo spezzato il ciclo, illudendoci di poterlo ricreare con algoritmi e cemento. Eppure, il dio cervo ci guarda ancora. Non con rabbia, ma con attesa.

Il messaggio è chiaro, antico, urgente: la sopravvivenza non è conquista, ma coesistenza.

 Dobbiamo tornare a imparare. Dai nomadi, dai popoli tradizionali, dai miti che non sono favole ma mappe dell'anima. Dobbiamo ascoltare il dio cervo dentro di noi, quello che ci ricorda che ogni vita è sacra, ogni morte è parte del ciclo, ogni gesto può essere armonia. Perché in fondo, come dicevano gli anziani Tsaatan

"La terra non ci appartiene. Noi apparteniamo alla terra". 





C'è un dolore che non si lascia raccontare facilmente. Non perché manchino le parole, ma perché ogni parola rischia di tradirlo. Il dolore provocato — quello che arriva da fuori, che ci attraversa senza chiedere permesso — non è solo una ferita. È una trasformazione. E raccontarlo significa esporsi, non solo descrivere.