Giovani liminali: la costruzione sociale del disagio nelle società avanzate

26.09.2025

In ogni società che si definisca "avanzata", il giovane non è mai solo un individuo in formazione: è un simbolo, un campo di battaglia, un termometro delle ansie collettive. In Giappone, come in Italia, le categorie giovanili emergono ciclicamente come "problemi sociali", etichette che condensano paure, aspettative e fallimenti sistemici. Otaku, hikikomori, NEET, freeters, shinjinrui: figure che incarnano deviazioni percepite, ma che spesso rivelano tensioni più profonde tra individuo e norma. 


L'età del disincanto: la Generazione Z tra consapevolezza e vulnerabilità

Ogni generazione eredita un mondo, ma non sempre lo riconosce come proprio. La Generazione Z — ragazze e ragazzi nati tra il 1996 e il 2010 — ha ricevuto in dono un pianeta interconnesso, iper-digitale, eppure profondamente instabile. Cresciuti tra schermi e algoritmi, questi giovani sono stati definiti "nativi digitali", come se la familiarità con la tecnologia bastasse a decifrare la complessità del presente. Ma la loro esperienza è segnata da fratture: la pandemia ha interrotto i rituali di socializzazione, l'apprendimento a distanza ha ridefinito il concetto di scuola, e la precarietà economica ha incrinato le promesse di autonomia.

Questa generazione non è solo consapevole delle ingiustizie sociali, delle crisi ambientali, delle disuguaglianze culturali — ne è anche testimone diretta, spesso impotente. Il desiderio di fare la differenza convive con il timore di non avere gli strumenti per farlo. E così, tra attivismo e ansia, tra iperconnessione e isolamento, si delinea una nuova forma di liminalità: non più solo transizione tra infanzia e età adulta, ma sospensione tra possibilità e disincanto.

In questo contesto, la sociologia non può limitarsi a descrivere: deve interrogare. Deve chiedersi come questa generazione stia ridefinendo la struttura dei valori, le aspettative sul futuro, il senso stesso di appartenenza sociale. E soprattutto, deve riconoscere che il disagio giovanile non è un'anomalia da correggere, ma un sintomo da ascoltare. Perché in quel disagio si riflette — come in uno specchio — la crisi di un'intera civiltà.


La sociologia dell'etichetta

Howard Becker lo scrive con precisione: "Deviante è colui al quale tale etichetta è stata applicata con successo". Il disagio non è sempre un fatto, ma una narrazione. I media, le istituzioni, le famiglie, gli esperti: tutti partecipano alla costruzione del "problema", spesso innescato da episodi di cronaca e amplificato da statistiche che sembrano confermare l'emergenza. Ma cosa accade se spostiamo lo sguardo? Se invece di chiederci "come correggere" il giovane, ci chiediamo "cosa ci sta dicendo?".


Giovani come soglia

Il giovane è figura liminale: né bambino né adulto, né conforme né ribelle. È instabile, sì — ma anche fertile. Le società avanzate, ossessionate dal controllo e dalla produttività, faticano a tollerare questa instabilità. Eppure, è proprio lì che si annida la possibilità di trasformazione. Il disagio giovanile non è solo un sintomo: è un segnale. Un invito a ripensare modelli educativi, relazioni sociali, linguaggi pubblici.


Soluzioni che non normalizzano

Le risposte non possono essere solo terapeutiche o disciplinari. Serve una pedagogia dell'ascolto, una cultura della lentezza, una politica del riconoscimento. Alcuni approcci emergenti:

  • Educazione emotiva: introdurre pratiche di consapevolezza, dialogo interiore, gestione del conflitto.

  • Spazi liminali protetti: luoghi non produttivi, non performativi, dove il giovane possa esplorare senza essere etichettato.

  • Narrative alternative: media e scuola come laboratori di storie che non stigmatizzano, ma amplificano la complessità.

  • Mentorship radicale: figure adulte che non correggono, ma accompagnano. Mosche bianche che difendono la dignità dell'eccezione.


Un confronto necessario

In Italia, come in Giappone, il giovane è spesso trattato come un rischio da contenere. Ma cosa accadrebbe se lo considerassimo un sapere da interrogare? Le categorie sociologiche non sono solo strumenti di analisi: sono specchi. E in quei riflessi, possiamo scorgere le crepe del nostro tempo — e forse, anche le vie di fuga. n Italia, come in Giappone, il giovane non è solo un soggetto in crescita: è un campo semantico, un dispositivo sociale, un prisma attraverso cui la società osserva se stessa. Quando la sociologia parla di "devianza giovanile", non descrive semplicemente comportamenti anomali, ma racconta le ansie di una collettività che teme il proprio futuro. Il giovane, in quanto figura liminale — né bambino né adulto, né conforme né ribelle — diventa il bersaglio privilegiato di narrazioni di rischio, controllo e normalizzazione.


Devianza come costruzione sociale

La teoria dell'etichettamento (labeling theory), sviluppata da Howard Becker e altri sociologi interazionisti, ci insegna che la devianza non è una qualità intrinseca dell'atto, ma il risultato di un processo di definizione. In questo senso, il giovane "deviante" è spesso il prodotto di un sistema che ha fallito nel riconoscere la pluralità dei percorsi esistenziali. L'hikikomori giapponese, il NEET italiano, il drop-out statunitense: figure diverse, ma accomunate da una narrazione che li trasforma da soggetti in crisi a oggetti di controllo.


La liminalità come tensione culturale

Victor Turner, riprendendo Arnold van Gennep, definisce la liminalità come uno stato intermedio, ambiguo, potenzialmente sovversivo. Il giovane è liminale perché non ancora pienamente integrato nel sistema adulto, ma già fuori dalla protezione infantile. Questa ambiguità lo rende pericoloso agli occhi delle istituzioni, che cercano di "chiudere" il rito di passaggio con dispositivi educativi, terapeutici o repressivi. Ma è proprio in questa soglia che si annida la possibilità di trasformazione sociale.


Giappone e Italia: due modelli di contenimento

  • In Giappone, la risposta al disagio giovanile è spesso tecnocratica: classificazione, statistica, intervento. Le categorie emergono in relazione a episodi di cronaca, e vengono trattate come anomalie da correggere. Il ciclo è prevedibile: scoperta → panico → contromisure → oblio.

  • In Italia, il modello è più frammentato, ma altrettanto normativo. Il giovane è spesso oggetto di retoriche paternalistiche, che oscillano tra la criminalizzazione e la medicalizzazione. Il NEET, il bullo, il "giovane violento" sono figure che catalizzano il discorso pubblico, ma raramente vengono interrogate come sintomi di un sistema in crisi.


Pedagogia del rischio: verso una sociologia trasformativa

Cosa accadrebbe se smettessimo di trattare il giovane come un rischio da contenere, e iniziassimo a considerarlo un sapere da interrogare? Una sociologia trasformativa dovrebbe:

  • Riconoscere la pluralità dei percorsi giovanili, senza ridurli a deviazioni dalla norma.

  • Interrogare le istituzioni educative e familiari come luoghi di riproduzione del disagio, non solo di cura.

  • Promuovere una pedagogia dell'ascolto, che valorizzi la voce dei giovani come fonte di sapere sociale.

  • Decostruire le categorie sociologiche, trattandole non come verità oggettive, ma come specchi delle paure collettive.


Vie di fuga: dalla diagnosi alla possibilità

Le categorie sociologiche sono specchi, sì — ma anche mappe. In quei riflessi possiamo scorgere le crepe del nostro tempo, ma anche le vie di fuga. Il giovane non è solo un soggetto da educare: è un interlocutore da ascoltare, un testimone del presente, un potenziale agente di cambiamento. La devianza, se interrogata con onestà, può diventare rivelazione. E la liminalità, se protetta, può diventare germinazione.


La metamorfosi dei valori: Gen Z e il rifiuto dell'eredità

La Generazione Z non ha semplicemente aggiornato il sistema valoriale delle generazioni precedenti — lo ha messo in discussione. Cresciuti in un contesto di crisi climatica, instabilità economica e iperconnessione, questi giovani hanno sviluppato una sensibilità acuta verso la giustizia sociale, la sostenibilità ambientale e l'inclusività culturale. Ma questa consapevolezza non si traduce automaticamente in fiducia. Al contrario, si accompagna spesso a un senso di disincanto verso le istituzioni, le promesse del merito, le narrazioni del progresso.

La fiducia nei valori tradizionali — lavoro, famiglia, religione, autorità — si è incrinata. Al suo posto emergono micro-etiche, forme di solidarietà fluide, comunità affettive e digitali, pratiche di cura reciproca che sfuggono alle definizioni canoniche. Il futuro non è più un orizzonte da conquistare, ma un territorio da proteggere. E il successo non è più misurato in status, ma in coerenza.

Questa metamorfosi non è una crisi: è una riscrittura. La Generazione Z non chiede di essere educata alla norma, ma di essere riconosciuta nella sua differenza. E forse, in questa differenza, si cela la possibilità di un nuovo patto sociale — fondato non sulla paura della devianza, ma sulla dignità della pluralità.




In ogni società che si definisca "avanzata", il giovane non è mai solo un individuo in formazione: è un simbolo, un campo di battaglia, un termometro delle ansie collettive. In Giappone, come in Italia, le categorie giovanili emergono ciclicamente come "problemi sociali", etichette che condensano paure, aspettative e fallimenti sistemici. Otaku,...