
Gaza: il calcolo della distruzione e il silenzio del mondo
SCRITTO DA ISIRIDE MULTIFORMA LANCETTI SU SGUARDI ALTROVE
Il 16 settembre, l'invasione terrestre di Gaza City ha preso forma. Due divisioni israeliane già sul terreno, una terza pronta a seguirle. La città è ancora piena di civili: centinaia di migliaia di persone intrappolate, senza vie di fuga, con i corridoi umanitari trasformati in trappole. Chi prova a spostarsi verso sud incontra bombe, mitragliatrici, ordini contraddittori. Gaza non è più solo un luogo: è diventata una gabbia, un esperimento di annientamento, un campo di concentramento a cielo aperto.
Questa operazione non è solo militare. È una scommessa politica, forse la più estrema di tutte. Una decisione presa contro il parere di alti funzionari della difesa, contro lo scetticismo dell'opinione pubblica, ma senza incontrare alcuna protesta significativa dentro Israele. Le piazze tacciono. Si indignano per gli ostaggi, ma non per i bambini palestinesi sepolti sotto le macerie. Non per le famiglie che bruciano vive nei loro appartamenti. Non per i corpi che nessuno potrà più identificare.
Il silenzio è complice. E chi lo governa lo sa.
Netanyahu conosce i rischi. Sa che l'uccisione degli ostaggi da parte di Hamas, in questa fase di assalto, potrebbe offrirgli il pretesto perfetto. Una tragedia utile. Un detonatore emotivo per spingersi oltre, fino all'occupazione totale della Striscia, fino all'espulsione sistematica della popolazione palestinese. È la logica cinica di chi non vede negli ostaggi vite da salvare, ma pedine sacrificabili. Strumenti per consolidare il potere, per tenere unita una coalizione che si regge sull'estrema destra, su ministri che invocano la pulizia etnica senza pudore, su un linguaggio che parla di "nemici da cancellare".
Non è una guerra. È una strategia di dissoluzione.
Il Capo di Stato Maggiore Eyal Zamir ha tentato di frenare questa deriva. Ha chiesto un accordo sugli ostaggi. Ha imposto all'esercito un passo lento, prudente, logorante. Ma la sobrietà non basta quando il potere ha bisogno di un nuovo shock. Netanyahu non cerca una vittoria militare. Cerca una carneficina che giustifichi la guerra perpetua. Un colpo irreversibile. Un evento che renda impossibile tornare indietro.
La storia non si ripete, ma si insinua. Sabra e Shatila, 1982: complicità israeliana e massacro utile a ridisegnare il Libano. Operazione "Piombo Fuso", 2008-2009: bombardamenti su civili e scuole, coperti dal linguaggio della "deterrenza". Oggi Gaza City rischia di diventare il teatro di un nuovo capitolo scritto sullo stesso registro: distruzione programmata, sacrificio calcolato, potere consolidato.
Netanyahu non combatte Hamas. Senza Hamas, che ha alimentato e tollerato per anni, non avrebbe nemici utili. Combatte per sé stesso. Per il suo futuro politico. Per sottrarsi alle inchieste giudiziarie. Per restare in sella. Gaza diventa la sua tavola di salvezza, o il suo naufragio. E gli ostaggi non sono un ostacolo: sono una leva. Se muoiono, la sua guerra diventa ancora più "necessaria".
Ma nulla di tutto questo è inevitabile.
Serve una rottura. Serve una voce che non si limiti a denunciare, ma che proponga. Serve una visione che non si lasci paralizzare dalla complessità, ma che osi immaginare un futuro diverso.
Serve una politica che:
smetta di armare i carnefici e inizi a proteggere i civili;
riconosca il diritto dei palestinesi a vivere, non solo a sopravvivere;
imponga limiti reali, non solo dichiarazioni vuote;
costruisca corridoi umanitari veri, non trappole;
promuova una giustizia internazionale che non sia selettiva, ma universale.
Serve una società civile che:
non si indigni solo per ciò che le riguarda direttamente;
non si lasci anestetizzare dalla propaganda;
non confonda sicurezza con vendetta.
Serve una memoria che:
non dimentichi i nomi, i volti, le storie;
non accetti che la sofferenza venga usata come moneta politica;
non permetta che il dolore diventi spettacolo.
Serve, infine, una coscienza collettiva che dica basta. Che dica: non in mio nome. Che dica: non è questa la civiltà che vogliamo.
Perché Gaza non è solo Gaza. È il punto in cui il mondo decide se vuole ancora essere umano.

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