Quando la Memoria non basta: autoritarismo, ignoranza e il fragile confine della libertà
L'EDITORIALE
DI ABEL GROPIUS
C'è qualcosa di dolorosamente paradossale nel fatto che, proprio nei luoghi dove l'orrore del Novecento ha lasciato le sue cicatrici più profonde, oggi tornino a vincere ideologie che con quegli orrori hanno una spaventosa parentela. Paradossale, sì. Ma non sorprendente.
In Polonia, in Ungheria, in Germania, in Italia. Laddove il nazismo, il fascismo, la Shoah, i gulag e l'oppressione avevano insegnato — o così credevamo — cosa significhi disumanizzare, discriminare, spegnere la libertà in nome dell'"ordine", ecco che oggi riappaiono leader duri, voci autoritarie, populismi identitari. Promettono sicurezza, identità, confini netti. Il tutto in un'estetica da manifesto elettorale: mascella scolpita, slogan gridati, nemici da additare.
Come se la Storia non avesse insegnato nulla. Come se il dolore avesse scadenza.
La nostalgia del pugno duro
Perché accade? Perché così tanti Paesi, così tante persone, sembrano desiderare proprio ciò che, nel passato, ha portato solo rovina? Perché la democrazia, che dovrebbe essere conquista, oggi viene trattata come un peso?
Per una ragione profonda e quasi inconfessabile: la libertà è faticosa. Chiede studio, dubbi, compromessi. Pretende che tu sopporti l'insicurezza, che tu conviva con chi è diverso, che tu accetti il grigio delle cose umane. E questo, per molti, è insostenibile.
L'autoritarismo, invece, è semplice. È la scorciatoia del pensiero. Ti dice cosa temere, chi odiare, dove guardare. Ti dà un'identità prefabbricata e un nemico funzionale. È la versione ideologica del fast food: sazia in fretta, intossica a lungo.
La destra estrema non cresce nel pensiero critico, ma nel sottosviluppo culturale. In terre dove leggere è da snob, studiare è da radical chic, dubitare è da traditori. Dove l'intelligenza viene sospettata e la complessità odiata.
Le democrazie smemorate
In quelle terre, anche i luoghi più martoriati dalla storia diventano terreno fertile per il ritorno dei fantasmi. La Polonia, che ha visto Auschwitz e Treblinka, oggi applaude leader che flirtano con idee reazionarie. L'Italia, che ha conosciuto Mussolini e le leggi razziali, si affida a chi rievoca quei simboli con un ghigno. L'Ungheria, che ha lottato per la libertà, la baratta con il controllo. E potremmo continuare.
Siamo dentro una nuova amnèsia morale. Una rimozione collettiva. Un cinico "non era poi così male", che rimbalza tra social, piazze e urne. Non abbiamo dimenticato perché non conosciamo: l'istruzione è stata svuotata, la memoria storica marginalizzata. I testimoni muoiono, le narrazioni si semplificano. E quando la complessità muore, torna il totalitarismo.
L'antidoto inatteso: l'arte
Ma un antidoto esiste. E non si trova nei partiti, nelle alleanze, nei sondaggi. È l'arte.
L'arte, quella vera — disturbante, inutile, scomoda — è il contrario esatto del populismo. Dove la propaganda semplifica, l'arte complica. Dove il regime impone, l'arte suggerisce. Dove si marcia, l'arte disorienta. L'arte è lo spazio del dubbio, il luogo dove l'identità si fa fluida, dove il "noi contro loro" implode.
È un gesto piccolo, ma potente: una mostra che ti smuove, un film che ti lascia senza fiato, una poesia che non capisci ma che ti rimane addosso. È in quell'attimo che torni umano. E dove c'è umanità, l'autoritarismo non mette radici.
Il rischio che corriamo non è solo politico. È antropologico. È il rischio di perdere la nostra capacità di pensare, di dubitare, di immaginare alternative. Di diventare, insomma, individui obbedienti e vuoti, felici della propria gabbia, mentre fuori il mondo brucia.
E allora sì, oggi più che mai, serve difendere la bellezza che fa pensare, l'arte che scompone, l'istruzione che complica.
Perché, come ha scritto una volta un poeta, "il contrario della libertà non è la prigione. È l'oblio".
Khalil Gibran, poeta e filosofo libanese, ha scritto: "L'oblio è una forma di libertà" . Questa affermazione suggerisce che dimenticare può liberare l'individuo dal peso del passato, permettendogli di vivere pienamente il presente.
Allo stesso modo, Friedrich Nietzsche, nel suo saggio "Sull'utilità e il danno della storia per la vita", sottolinea l'importanza dell'oblio per l'azione e la vitalità umana. Secondo Nietzsche, un eccesso di memoria può paralizzare l'individuo, mentre la capacità di dimenticare consente di agire e vivere autenticamente.
In un contesto più contemporaneo, un detenuto albanese di nome Zef*, intervistato nel carcere di Como, ha dichiarato: "Il contrario della libertà non è stare in carcere. Il contrario della libertà è la solitudine disperata, è essere soli". Questa testimonianza evidenzia come la mancanza di connessione e riconoscimento possa essere percepita come una forma di prigionia più opprimente della detenzione. Insomma, la libertà può essere minacciata non solo da restrizioni fisiche, ma anche dall'oblio, dall'isolamento e dalla perdita di significato. Ricordare, essere riconosciuti e mantenere legami significativi sono elementi fondamentali per preservare la libertà individuale e collettiva.
E noi, oggi, sembriamo molto vicini a dimenticare.
APPROFONDIMENTO:
La frase citata — «Il contrario della libertà non è stare in carcere. Il contrario della libertà è la solitudine disperata, è essere soli» — è stata pronunciata da Zef Karaci, un detenuto albanese che ha scontato una lunga pena in Italia. Queste parole riflettono una profonda riflessione sulla condizione umana e sulla vera essenza della libertà, maturata durante la sua detenzione nel carcere di Como.
Zef Karaci è nato in Albania nel 1983 e, all'età di 17 anni, è arrivato in Italia su un gommone dalle coste di Valona. Dopo un periodo trascorso nella bergamasca, nel 2005 è stato arrestato per omicidio e successivamente trasferito nel carcere di Como. È proprio lì che ha incontrato don Roberto Malgesini, un sacerdote noto per il suo impegno con i più emarginati, che ha avuto un impatto significativo sulla sua vita.
L'incontro con don Roberto ha rappresentato per Zef un punto di svolta. Il sacerdote, con la sua capacità di ascolto e la sua presenza costante, ha aiutato Zef a riscoprire il valore della propria esistenza e a intraprendere un percorso di redenzione. Come ha raccontato Zef: «Don Roberto mi ha reso libero, mentre ero in cella».
Questa trasformazione interiore ha portato Zef a scrivere due libri dedicati alla memoria di don Roberto:
In queste opere, Zef condivide la sua esperienza di vita, il percorso di cambiamento e l'importanza dell'incontro con don Roberto nel suo cammino di rinascita.
La testimonianza di Zef Karaci offre una profonda riflessione sul significato della libertà e sulla capacità dell'essere umano di trovare redenzione e senso anche nelle situazioni più difficili.