Marionette o uomini consapevoli? Perché vivere significa non smettere di interrogarsi

01.09.2025

L'EDITORIALE
DI ABEL GROPIUS


C'è un paradosso che accompagna la condizione umana: da un lato la ricerca di consapevolezza, dall'altro il peso insopportabile che essa porta con sé. Chi non comprende vive immerso nella spontaneità, in una sorta di innocenza cieca che gli permette di agire senza porsi troppe domande. Chi comprende, invece, si ritrova a inciampare continuamente nella trappola del pensiero: ogni azione è filtrata, esaminata, rallentata da un "non devo" che logora la volontà. Il rischio, però, è quello di una vita frenata, sterilizzata e anestetizzata dalla paura di cadere nell'errore, finendo per trasformarsi in una rinuncia totale. La rivelazione amara è che la vita stessa, nella sua essenza, è fatta di contraddizioni, istinti e "bestialità". Chi dunque si illude di poter vivere senza mai sporcarsi le mani, forse rischia di non vivere affatto.  


La felicità delle marionette

E qui si innesta la seconda immagine, potentissima: le marionette. Esse non hanno coscienza, non hanno scrupoli, non conoscono l'angoscia del dubbio. Per loro, il cielo dipinto sopra il palcoscenico è sufficiente, proporzionato, consolatorio. Non provano vertigine, perché non si affacciano mai sull'abisso della libertà. Esse sono contente della loro parte, dei loro gesti ripetuti, delle parole imposte da un copione.

Ed ecco l'invidia: la marionetta, proprio perché priva di coscienza, gode di una stabilità che all'uomo sfugge. Nessuna crisi, nessuna frattura interiore, nessun peso esistenziale. Solo un quieto gusto della recita.

Vivere nonostante tutto

L'alternativa alla marionetta non è l'asceta sterile, ma l'uomo che sceglie di vivere con consapevolezza del limite. Significa rischiare, agire, amare, sbagliare, e nel contempo sapersi interrogare, fermarsi, riconoscere i propri errori. È un equilibrio instabile, certo, ma l'unico che ci preserva dall'illusione teatrale e dalla sterilità dell'inazione.


«Beate le marionette» sospirai, «su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà; nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.

Pirandello, con la sua penna tagliente e visionaria, riesce a trasformare le marionette in simboli di una condizione esistenziale che molti forse invidiano: quella dell'assenza di coscienza, di tormento, di dubbio. Il "cielo di carta" sopra le loro teste non si strappa mai, perché non è soggetto alle intemperie dell'anima.

Nel passo riportato, Pirandello sembra sospirare con una punta di invidia verso queste creature di legno, che vivono una commedia senza inciampi, senza il peso della riflessione o della responsabilità. Non soffrono di vertigini esistenziali perché il loro mondo è proporzionato, chiuso, semplice. 

Mattia Pascal, come tanti personaggi pirandelliani, è invece l'emblema dell'uomo smarrito, che ha perso le coordinate e si interroga sul senso della propria identità. L'uomo, a differenza della marionetta, è condannato alla libertà, e con essa alla sofferenza, all'ambiguità, alla vertigine del pensiero. Pirandello non ci dice se questa vita "beata" delle marionette sia davvero desiderabile. È una provocazione: meglio essere vivi e tormentati, o immobili e sereni? La marionetta non ha dubbi, ma non ha nemmeno anima. L'uomo ha l'anima, ma è lacerato da essa.


Il fardello della coscienza

Ma noi non siamo marionette. Siamo condannati alla coscienza, e con essa al rischio, all'errore, alla fatica di dover attribuire un senso ai nostri gesti. La domanda allora si fa pedagogica: che cosa farne di questo peso? Come insegnare a vivere senza essere paralizzati dalla comprensione?

L'educazione autentica non dovrebbe spingere verso un'illusoria perfezione, fatta di regole rigide e divieti sterili. Non dovrebbe illudere che la vita "giusta" sia una vita priva di cadute. Dovrebbe piuttosto insegnare ad abitare la contraddizione, ad accettare la fragilità e l'imperfezione come elementi costitutivi della nostra umanità.



Ciò che ci distingue dalle marionette non è solo il peso della coscienza, ma la possibilità di trasformare quel peso in libertà. Una libertà dolorosa, talvolta angosciante, ma vera. Perché vivere significa anche cadere, sbagliare, rialzarsi — e soprattutto, non smettere di interrogarsi. 

In fondo, le riflessioni da cui siamo partiti non sono un semplice gioco letterario, ma il cuore de "Il fu Mattia Pascal" [.pdf]. Lì, Pirandello mette in scena l'uomo che ha tentato di liberarsi dalle maschere sociali, credendo di poter vivere "fuori dal copione" come un essere finalmente autentico. Ma il risultato è un paradosso: senza nome, senza ruolo, senza legami, Mattia Pascal non conquista la libertà, ma scivola in un vuoto ancora più doloroso.

Pirandello ci avverte: non possiamo illuderci di essere marionette felici, né possiamo sottrarci al peso della coscienza senza pagarne il prezzo. La vita autentica non è assenza di maschere, ma capacità di riconoscerle, giocarci, trasformarle, senza mai dimenticare la vertigine che ci accompagna. È in questa tensione che si decide la dignità dell'uomo, condannato a vivere nel conflitto ma mai privo di senso.


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