L’Io è finzione: la narrazione come atto di esistenza

03.11.2025

"L'Io è finzione". Con questa affermazione provocatoria, Nancy Huston ci invita a riconsiderare uno dei concetti più radicati nella nostra cultura: l'identità personale. Nel suo saggio L'espèce fabulatrice (2008), la scrittrice franco-canadese esplora la natura narrativa dell'essere umano, sostenendo che ciò che chiamiamo "Io" non è altro che una costruzione immaginaria, una storia che raccontiamo a noi stessi per dare senso alla nostra esistenza.


L'identità come racconto

L'essere umano è l'unica specie che ha bisogno di raccontarsi per esistere. Non ci limitiamo a vivere: interpretiamo la nostra vita, la organizziamo in trame, la rivestiamo di significati. L'identità non è un dato biologico o psicologico, ma un'opera narrativa in continua riscrittura.

Non siamo nati con un'identità definita: la costruiamo giorno dopo giorno, selezionando ricordi, emozioni, esperienze. Ogni scelta che compiamo, ogni parola che pronunciamo, ogni silenzio che custodiamo contribuisce a scrivere il romanzo del nostro Io. Ma come ogni romanzo, anche questo è parziale, soggettivo, mutevole.


L'empatia come riflesso

Huston osserva che è più semplice vedere il mondo attraverso gli occhi di un altro che attraverso i propri. Questo paradosso rivela una verità profonda: gli altri ci appaiono come figure già scritte, con tratti riconoscibili, ruoli sociali, storie che possiamo intuire o immaginare. Noi stessi, invece, siamo un enigma in divenire.

Capire noi stessi richiede uno sforzo creativo. Non basta guardarci allo specchio: dobbiamo inventare una narrazione che ci renda comprensibili, prima di tutto a noi. La narrazione non serve tanto per immedesimarsi negli altri, quanto per riconoscersi, per darsi un volto, una voce, una coerenza.


ph / Untitled, Abel Gropius
ph / Untitled, Abel Gropius

La letteratura come laboratorio dell'Io

La letteratura non è solo un mezzo per evadere dalla realtà, ma uno strumento per esplorarla. Leggere e scrivere sono atti profondamente identitari: ci permettono di sperimentare versioni alternative di noi stessi, di confrontarci con possibilità che altrimenti resterebbero inespresse.

Ogni personaggio letterario è una maschera dell'Io, un tentativo di rispondere alla domanda: "E se fossi così?" La finzione diventa allora un modo per sondare l'autenticità, per mettere alla prova i confini dell'identità, per scoprire chi siamo attraverso ciò che non siamo.


Raccontarsi non è un lusso: è una necessità. Perché solo attraverso la finzione possiamo avvicinarci alla verità di ciò che siamo.

La potenza della finzione

Affermare che l'Io è finzione non significa negare la nostra esistenza, ma riconoscerne la natura fluida, mutevole, narrativa. È un invito a prendere in mano la penna e diventare autori della nostra storia. Non siamo prigionieri di un'identità immutabile: siamo narratori, e possiamo riscriverci. La finzione non è menzogna: è possibilità. È lo spazio in cui l'essere umano esercita la sua libertà più profonda, quella di immaginarsi diverso, di trasformarsi, di evolvere. In un mondo che spesso ci impone ruoli rigidi e identità prefabbricate, la narrazione è un atto di resistenza e di creazione. Nancy Huston ci ricorda che l'identità non è un'essenza da scoprire, ma un'opera da comporre. L'Io non è un punto di partenza, ma un punto di arrivo. Non è un dato, ma un compito. E in questo compito, la narrazione è il nostro strumento più potente. "Raccontarsi non è un lusso: è una necessità. Perché solo attraverso la finzione possiamo avvicinarci alla verità di ciò che siamo".



IN ALTRE PAROLE


La narrazione come funzione cognitiva e culturale: un nuovo paradigma interpretativo

Le narrazioni sono ovunque: riempiono biblioteche e archivi digitali, abitano la memoria degli individui e dei popoli, plasmano l'immaginario collettivo e personale. Eppure, paradossalmente, proprio mentre il mondo si satura di storie, l'analisi narrativa sembra attraversare una crisi profonda. Dopo l'epoca dell'esegesi, si sono succedute correnti interpretative come lo strutturalismo, l'ermeneutica, la psicanalisi, il femminismo, la decostruzione — solo alcune tra le molteplici scuole che hanno tentato di decifrare il fenomeno narrativo. Il risultato è una frammentazione teorica che rende difficile, se non impossibile, un approccio condiviso.

In questo contesto, è necessario ripensare radicalmente il modo in cui comprendiamo la narrazione. Dopo aver ripercorso la storia della narratologia classica e dei suoi principali autori, propongo un cambio di prospettiva: considerare la narrazione non come semplice arte o tecnica, ma come funzione cognitiva evolutiva. Le scienze biologiche e neurobiologiche offrono modelli che ci permettono di interpretare la narrazione come un meccanismo neuronale fondamentale, attraverso cui il cervello umano si orienta nel tempo, organizza gli eventi, attribuisce senso all'esperienza.

La narrazione, in questa visione, non è solo un prodotto culturale, ma una strategia cognitiva che ci consente di tenere insieme i frammenti della nostra vita. È ciò che trasforma il caos in ordine, l'accadere in significato. E non è un processo passivo: è un gioco cognitivo attivo, che può essere analizzato attraverso i modelli matematici della teoria dei giochi. Da questa prospettiva, le storie non sono solo specchi della realtà, ma strumenti evolutivi che hanno guidato la cultura umana verso forme sempre più complesse di cooperazione.

Chiunque abbia pianto davanti a un film, si sia sentito trasformato da un romanzo, o abbia trovato conforto in una commedia, ha sperimentato la potenza della narrazione. Le storie ci nutrono, ci formano, ci sopravvivono. La nostra vita stessa è una narrazione, e ha senso solo nella misura in cui siamo capaci di raccontarla. Ma cosa accade davvero nel nostro cervello quando viviamo un'esperienza narrativa? Come funziona questo misterioso meccanismo che ci permette di dare coerenza al nostro vissuto?

Le storie possono ispirare, motivare, guarire — come accade a Sharāzād ne Le mille e una nottema possono anche distruggere. In nome di narrazioni come la teoria della razza, la lotta di classe o la storia della salvezza, sono state perpetrate atrocità indicibili. Platone ci mette in guardia dalle cattive storie, Aristotele ci insegna a giudicarle. Per millenni, grandi narrazioni religiose e laiche si sono contese il senso ultimo della Storia, fino alla crisi del postmoderno, che ha messo in discussione la possibilità stessa di una narrazione universale.

La narrazione è inevitabile. È inscritta nel nostro linguaggio, nella nostra percezione del tempo, nella nostra corporeità. Dalla pittura rupestre alla danza, dal racconto orale alle immagini digitali, l'essere umano ha sempre raccontato storie. E ogni racconto è inevitabilmente parziale, artefatto, manipolato: se fosse puro, non sarebbe racconto, ma realtà. Il problema non è stabilire se una narrazione sia importante o giusta, ma comprendere come funziona.

Il termine "narrazione" racchiude molteplici significati. La distinzione tradizionale tra narrazione e descrizione, basata sul riferimento al tempo, è insufficiente: anche le descrizioni raccontano un tempo, seppur rallentato o sospeso. La narrazione è meglio intesa come funzione cognitiva trasversale, che attraversa ogni forma di esperienza umana. Le distinzioni tra finzione e resoconto, tra spettatore e lettore, non aiutano a cogliere l'essenza del fenomeno narrativo. Perché ciò che conta non è il medium, ma il processo mentale che ci consente di dare senso.

"Perché ciò che ci interessa non è il modo in cui la storia viene fruita, ma il modo in cui essa agisce sulla mente umana. Raccontare storie non è un lusso: è una necessità. È il modo in cui diventiamo umani".


A PROPOSITO DI..


Paul Ricoeur e la narrazione: il filo che cuce l'identità

Paul Ricoeur, tra i più influenti filosofi del XX secolo, ha dedicato gran parte della sua opera a indagare il rapporto tra tempo, identità e narrazione. Per lui, raccontare storie non è un semplice esercizio creativo, ma un atto ontologico: è attraverso la narrazione che l'essere umano dà forma alla propria esistenza e la rende comprensibile.

La narrazione come tessitura del tempo

Ricoeur sostiene che la narrazione è ciò che ci consente di intrecciare passato, presente e futuro in un racconto coerente. Senza narrazione, il tempo sarebbe solo una successione di istanti. Con la narrazione, invece, il tempo diventa esperienza vissuta, dotata di senso e direzione.

  • Il passato non è solo ciò che è accaduto, ma ciò che viene reinterpretato.

  • Il presente non è solo ciò che si vive, ma ciò che si racconta.

  • Il futuro non è solo ciò che verrà, ma ciò che si immagina e si progetta.

L'identità narrativa

Uno dei concetti chiave di Ricoeur è quello di identità narrativa. L'Io non è una sostanza fissa, ma una storia in divenire. Non siamo ciò che siamo, ma ciò che raccontiamo di essere.
L'identità si costruisce nel tempo, attraverso il racconto che facciamo di noi stessi e che gli altri fanno di noi.

  • L'identità non è mai definitiva: è sempre aperta, rivedibile, trasformabile.

  • Raccontarsi significa dare forma al sé, ma anche mettersi in discussione.

  • La narrazione è il luogo in cui l'identità si negozia, tra memoria e progetto, tra fedeltà e cambiamento.


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La funzione etica della narrazione

Per Ricoeur, la narrazione ha anche una funzione etica. Raccontare storie significa mettere in relazione il sé con l'altro, creare ponti di comprensione, generare empatia. Le storie ci permettono di abitare il punto di vista altrui, di riconoscere l'alterità, di costruire comunità.

  • Le narrazioni personali si intrecciano con quelle collettive.

  • Le storie possono guarire, ispirare, trasformare.

  • Ma possono anche ferire, manipolare, distruggere: da qui l'importanza di giudicare le narrazioni, come insegnano Platone e Aristotele.

Vivere narrativamente

Ricoeur ci invita a vivere con consapevolezza narrativa: riconoscere che ogni vita è una storia in divenire, che possiamo reinterpretare il passato, riscrivere il presente, immaginare il futuro. Vivere narrativamente significa abitare il tempo con intenzionalità, dare senso al vissuto, scegliere la trama della propria esistenza.

"Siamo le storie che raccontiamo". E in un'epoca di frammentazione e smarrimento, il pensiero di Ricoeur risuona come un invito a ritrovare continuità, autenticità e trasformazione attraverso il potere delle storie.


Perché ciò che ci interessa non è il modo in cui la storia viene fruita, ma il modo in cui essa agisce sulla mente umana. Raccontare storie non è un lusso: è una necessità.
È il modo in cui diventiamo umani.
Le storie ci nutrono, ci formano, ci sopravvivono. La nostra vita stessa è una narrazione, e ha senso solo nella misura in cui siamo capaci di raccontarla.


Tanju Özelgin è un designer di fama internazionale, nato a Istanbul nel 1962. Con una carriera che abbraccia oltre tre decenni, Özelgin ha lasciato un'impronta indelebile nel mondo del design industriale e dell'architettura d'interni . La sua formazione presso la Marmara University, dove si è laureato in Design di Prodotti Industriali nel 1984, ha...