IN PIONEER
scritto da Jose Mazir
Dentro l’animo di Frankenstein: Mary Shelley e il cuore oscuro della creazione
Nel 1818, una giovane donna di appena vent'anni pubblicava uno dei romanzi più influenti della letteratura gotica e fantascientifica: Frankenstein, o il moderno Prometeo. Mary Shelley, figlia della filosofa proto-femminista Mary Wollstonecraft e del politico radicale William Godwin, si affacciava sul mondo letterario con un'opera destinata a scuotere le fondamenta del pensiero romantico e scientifico. Ma Frankenstein è molto più di una storia di terrore: è un'indagine sull'animo umano, sull'orgoglio della mente razionale e sul dolore della creatura rifiutata.
Victor Frankenstein: il creatore cieco
La figura del dottor Victor Frankenstein incarna l'ambizione prometeica dell'uomo moderno. Non è un pazzo scienziato nel senso caricaturale; è un giovane brillante, divorato dal desiderio di superare i limiti imposti dalla natura. La sua "colpa" più grande non è tanto quella di creare la vita, ma di farlo senza assumersi la responsabilità morale delle sue azioni.
Frankenstein cerca di dominare la morte, di appropriarsi del segreto della vita, ma quando la sua creatura prende forma, la rifiuta. È qui che Shelley pone una domanda scomoda: che cosa ci rende davvero umani? L'atto della creazione non è sufficiente se non è accompagnato dall'amore, dall'empatia, dalla responsabilità. Victor si comporta come un Dio senza coscienza, e proprio per questo è destinato alla rovina.
La Creatura: specchio dell'animo umano
L'essere senza nome – la "creatura", non il "mostro", come viene spesso semplificato – è il vero cuore emotivo del romanzo. Non nasce malvagio: apprende, osserva, cerca amore, comprensione. È solo quando viene costantemente respinto e trattato come un abominio che si trasforma in ciò che gli altri temono. La sua è una sofferenza che riflette quella di chi viene escluso, di chi non trova posto nel mondo.
Shelley disegna un parallelismo sottile tra creatore e creatura: entrambi sono soli, entrambi sono dilaniati dal rimorso e dall'orgoglio, e in entrambi si agita un'anima tormentata. Ma se Victor ha scelto il suo isolamento, la creatura lo subisce. Se Victor cerca il potere, la creatura cerca solo uno sguardo umano.
Mary Shelley: madre del mostro e del moderno
Per comprendere davvero Frankenstein, non si può ignorare la biografia della sua autrice. Mary Shelley scrisse il romanzo poco dopo aver perso una figlia neonata. L'esperienza del dolore, del lutto e della maternità incompiuta si riflette potentemente nella sua opera: creare la vita e vederla fuggire, deperire o ribellarsi. Non è un caso che Frankenstein sia nato da un incubo, durante una notte buia e tempestosa sul lago di Ginevra, in compagnia di Lord Byron e Percy Shelley.
Shelley anticipa temi che oggi definiamo "moderni": bioetica, intelligenza artificiale, alienazione, diritti delle creature artificiali. Ma soprattutto, offre uno sguardo lucido sull'animo umano: la tensione tra razionalità e sentimento, tra creatività e distruzione, tra solitudine e desiderio di amore.
L'umanità nella crepa
Alla fine, Frankenstein non ci parla tanto della scienza, quanto della condizione umana. Ci chiede dove finisca la responsabilità del creatore, quanto possa sopportare un'anima rifiutata, e cosa succede quando l'uomo gioca a fare Dio senza ascoltare il cuore. Mary Shelley non ci dà risposte, ma ci costringe a guardarci allo specchio – e forse, come la sua creatura, a domandarci: chi è il vero mostro?
L'inverno avanzò, e un intero ciclo di stagioni si era svolto da quando mi ero svegliato alla vita. A quel tempo la mia attenzione era rivolta unicamente al piano per introdurmi nella casa dei miei protettori. Considerai molti progetti, ma alla fine quello che decisi di adottare fu di entrare nell'abitazione quando il vecchio cieco fosse stato solo. Ero abbastanza perspicace da scoprire che l'aspetto innaturale e spaventoso della mia persona era stato il principale motivo di orrore per coloro che mi avevano visto in precedenza. La mia voce, sebbene aspra, non aveva niente di terribile; pensai dunque che se, in assenza dei suoi figli, fossi riuscito a guadagnare la benevolenza e la mediazione del vecchio De Lacey, avrei potuto, grazie a lui, essere tollerato dai miei giovani protettori.
La ricerca del riconoscimento (Hegel e oltre)
Il mostro, o meglio la Creatura, mostra qui una consapevolezza tipicamente umana: non basta esistere biologicamente, serve essere riconosciuti. Secondo la Fenomenologia dello Spirito di Hegel, la coscienza diventa veramente sé stessa solo attraverso un rapporto dialettico con un altro che la riconosce come soggetto. La Creatura ha ormai attraversato un ciclo completo di stagioni, segno di maturazione, ma resta incompleta finché non trova uno sguardo che la accolga. La strategia di rivolgersi al vecchio cieco De Lacey nasce da qui: il cieco non può essere influenzato dal pregiudizio visivo, e quindi potrà riconoscerlo per la sua voce e le sue parole.
Linguaggio vs. apparenza (Platone e il primato del logos)
Il passo mostra una tensione tra due modi di conoscenza. L'apparenza esteriore, che genera paura e rifiuto (il "corpo mostruoso" come marchio di esclusione sociale).
La parola e la ragione: la Creatura riconosce che il linguaggio può creare un ponte, può manifestare l'interiorità e rendere possibile l'incontro. Qui riecheggia l'idea platonica che il logos sia il tramite dell'anima, più veritiero delle mere impressioni sensibili.
La cecità come metafora (Epistemologia ed etica)
Il cieco diventa simbolo paradossale di una possibile "visione" più autentica. Non potendo vedere il corpo mostruoso, può giudicare secondo ragione e non secondo apparenza. La cecità qui rovescia il paradigma abituale (dove "vedere" è sinonimo di conoscere): l'assenza della vista è ciò che permette un accesso meno contaminato dal pregiudizio. Filosoficamente, questo rimanda a un'idea kantiana: la conoscenza sensibile è limitata e ingannevole, e solo la facoltà razionale (qui la parola e il dialogo) consente un giudizio etico universale.
La dialettica tra natura e cultura
La Creatura, "figlio" della scienza ma privo di comunità, rappresenta un essere liminale.
Natura: il corpo deforme, generato artificialmente, ma percepito come un fatto bruto e minaccioso.
Cultura: il desiderio di relazione, l'uso del linguaggio, la progettualità (aspettare il momento giusto, scegliere il modo di agire). Questa tensione mostra il paradosso: è "mostro" solo perché la società non riesce a integrarlo nella sfera culturale.
Aspetti etico-politici
Il passo mette in scena il meccanismo dell'esclusione sociale. La Creatura sa che sarà rifiutata a causa dell'aspetto, indipendentemente dai suoi intenti. Il suo progetto è allora un tentativo di "contrattazione morale" con la comunità attraverso l'unico spiraglio possibile: la fiducia di un individuo che non può vederlo. Qui Mary Shelley anticipa una riflessione moderna: la stigmatizzazione dell'altro (per razza, deformità, diversità culturale o sociale) impedisce il riconoscimento dell'umanità condivisa.
La tragedia dell'alterità
Filosoficamente, il passo mostra il cuore tragico del romanzo: la Creatura è perfettamente razionale, sa argomentare, riflette su sé stessa, eppure la sua condanna non deriva da ciò che fa o pensa, ma da come appare. In termini levinasiani, l'"altro" qui non riesce a essere accolto nel volto, perché il volto è oscurato dall'orrore fisico. La Creatura cerca allora un varco etico nell'unico uomo che non può guardare il suo volto.
Dunque, per finire, Mary Shelley porta alla luce il nodo universale dell'alterità: il bisogno di essere accolti come esseri umani, al di là dell'apparenza. La Creatura sa che solo la parola e l'incontro con l'altro possono salvarla dalla solitudine, ma sa anche che l'umanità spesso si arresta di fronte al diverso, vedendo nel volto non un richiamo alla responsabilità, bensì una minaccia. Il cieco De Lacey diventa allora il simbolo della possibilità di un riconoscimento autentico: colui che, non vedendo, forse potrà davvero "vedere". La tragedia del mostro, e forse dell'uomo stesso, sta qui: nell'eterna oscillazione tra desiderio di comunione e rifiuto dell'altro, tra l'ospitalità etica e la paura che ci fa chiudere le porte.
Un inverno silenzioso avvolge la campagna innevata. La Creatura, enorme e goffa, resta immobile davanti alla soglia di una piccola casa di legno, il fiato che si condensa nell'aria fredda. Dentro, un vecchio cieco siede accanto al focolare, ignaro della presenza che lo osserva. Non ci sono occhi a giudicare, solo l'attesa di una voce che possa farsi ponte. La mano del mostro, tremante, si alza verso la porta: è la mano del diverso, del rifiutato, che cerca non un rifugio qualunque, ma la prova più difficile — essere riconosciuto come uomo senza essere visto.
Così la Creatura, davanti alla soglia della casa dei De Lacey, non è solo un essere respinto dalla società, ma è l'emblema di ogni "straniero" che bussa a una porta. Da un lato porta con sé la minaccia del diverso, dall'altro la promessa di un incontro capace di trasformare entrambi. In quel gesto di tendere la voce a un cieco si condensa la scena archetipica dell'umanità: la possibilità che l'uomo riconosca l'uomo non attraverso gli occhi, ma attraverso l'ascolto. È l'immagine di una creatura che tende la mano nell'ombra, sperando che qualcuno, al di là delle apparenze, sappia ancora stringerla.

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