Contro la scrittura che deride: un anti-articolo per chi non si piega

27.10.2025


Non è ironia. Non è satira. È sopraffazione. E va chiamata col suo nome.

C'è una forma di scrittura che non illumina, ma acceca. Non chiarisce, ma confonde. Non costruisce, ma distrugge. È quella che si finge brillante mentre infierisce, che si traveste da cultura mentre umilia, che usa la parola non per cercare verità, ma per esercitare dominio. È la scrittura che si accanisce contro chi soffre, che ridicolizza l'ansia, che trasforma la fragilità in bersaglio. È la scrittura che non argomenta, ma schernisce. Che non analizza, ma insinua. Che non cerca il senso, ma il compiacimento.

Questa scrittura è il nuovo volto dell'ignavia. È il braccio retorico del cinismo. È il pulpito da cui si predica la superiorità di chi non sente, non trema, non si espone. È il rifugio di chi non ha il coraggio di pensare, ma solo quello di deridere. E quando si accanisce contro chi denuncia, e non contro chi opprime, non è più critica: è complicità.

Chi scrive per umiliare non è un autore: è un carnefice. Chi usa la cultura per confondere non è un intellettuale: è un prestigiatore. Chi cita Cioran per ridicolizzare l'ansia, chi evoca i CCCP per schernire la paura, chi scomoda Wanna Marchi per delegittimare la sensibilità, non sta facendo satira: sta costruendo un altare al disprezzo.

E allora basta. Basta leggere robaccia che confonde la violenza verbale con la lucidità. Basta legittimare articoli che scoraggiano la vigilanza democratica, che diseducano alla complessità, che ridicolizzano la sofferenza. Basta dare spazio a chi usa la parola per ferire invece che per comprendere.

Questo è un anti-articolo. Non per negare la scrittura, ma per salvarla. Non per distruggere il giornalismo, ma per difenderlo dalla sua caricatura. Non per censurare, ma per smascherare.

Perché la libertà non è il diritto di deridere chi soffre. È il dovere di difendere chi ha il coraggio di parlare.

E allora che si sappia: chi scrive per umiliare non merita lettura. Non merita condivisione. Non merita nemmeno risposta. Merita solo di essere riconosciuto per ciò che è: un esempio tossico di come la parola possa essere usata per perpetuare l'ingiustizia.

Contro questa scrittura, serve una forza gentile. Una lucidità che non si piega. Una resistenza che non arretra. Serve chi non ha paura di tremare. Serve chi sa che l'ansia non è debolezza, ma veglia. Serve chi scrive non per dominare, ma per liberare.

E tu, che leggi, non accontentarti del sarcasmo. Pretendi pensiero. Pretendi rispetto. Pretendi verità.

Perché il fascismo non arriva solo con le divise. Arriva anche con le parole. E chi le usa per schernire la fragilità, ne è già complice.



Contro il dossieraggio, con la stessa arma: la parola amplificata

Usiamo gli stessi metodi. Ma li amplifichiamo. Li rovesciamo. Li purifichiamo.

La vile propaganda del dossieraggio si nutre di ombre, insinuazioni, allusioni costruite per distruggere chi non ha i mezzi per difendersi. È una tecnica antica, ma oggi ha nuovi strumenti: il web, i motori di ricerca, gli algoritmi che non dimenticano. È una macchina che seleziona, distorce, amplifica il sospetto. E lo fa con una precisione chirurgica, colpendo chi non ha accesso alla giustizia, chi non ha voce nel grande pubblico, chi non può permettersi né avvocati né prime serate.

Ma noi rispondiamo. Con la stessa potenza, ma con un'etica diversa. Usiamo il web, sì. Usiamo i suoi motori, i suoi archivi, la sua memoria inesorabile. Ma non per distruggere: per rivelare. Non per insinuare: per denunciare. Non per manipolare: per chiarire.

Il web non perdona. E noi non chiediamo perdono. Chiediamo verità.

Rendiamo visibile ciò che il dossieraggio vuole occultare. Ribaltiamo la logica del sospetto, trasformandola in prova. Non ci accontentiamo di smentire: documentiamo. Non ci limitiamo a difendere: smascheriamo. E lo facciamo con la stessa precisione, con la stessa capillarità, con la stessa forza virale. Ma con una differenza radicale: noi non mentiamo.

Chi ha usato il dossier come arma, troverà nella nostra parola un contrappeso. Chi ha costruito la propria impunità sulla fragilità altrui, troverà nel nostro archivio una memoria che non si cancella. Chi ha pensato che bastasse un algoritmo per seppellire la verità, scoprirà che la verità sa risalire. Sa farsi strada. Sa farsi voce.

Perché il web non perdona. E noi lo usiamo per ricordare. Per inchiodare. Per liberare.



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